DAGO HERON

Capitolo 5 Territori Inesplorati

Il Sapore della Sottomissione - Capitolo 5 - Il Battesimo Osceno

Giulia percepiva la sua presenza alle spalle con quella chiarezza allucinata che solo il subspace sa regalare, quella dimensione parallela dove ogni senso si amplifica e il tempo perde significato, trasformando la realtà in cristallo liquido che vibra di possibilità infinite. La parte ancora vanilla di lei bramava voltarsi, incontrare i suoi occhi, chiedergli se il suo sesso grondava abbastanza umori, se stava interpretando alla perfezione il ruolo della puttana che lui desiderava plasmare. Ma quello non era il copione. Non in quella cattedrale del piacere dove lei era legata sull’altare sacrificale. L’aria densa trasformava ogni gemito in eco sacra, ogni respiro in preghiera involontaria.

Le gambe spalancate in un’offerta oscena, Giulia avvertì qualcosa di strano premere contro la sua vulva. Non era un membro umano – questo lo capì subito. La superficie troppo articolata, percorsa da rilievi che sussurravano di geometrie impossibili, la fece rabbrividire di anticipazione. Aveva anche cercato di passare in rassegna gli oggetti che avevano scelto.

Chiuse gli occhi lasciando che la figa diventasse il suo unico organo percettivo, come se quella parte di lei avesse sviluppato un sistema percettivo autonomo, un’intelligenza cellulare che parlava direttamente al midollo spinale bypassando il cervello. Era neuroscienza applicata al piacere: la figa che diventava il vero centro di comando della sua coscienza. La mente catalogava frenetica: non il plug, troppo flessibile; non i dildi normali, troppo complesso. Quando quella punta la invase, dilatandola con quelle sporgenze che sembravano bocche affamate che baciano e succhiano la carne dall’interno, ognuna una piccola ventosa del piacere che si attaccava alle pareti interne creando costellazioni di sensazioni che nessun atlante anatomico aveva mai mappato

Quel cazzo di tentacolo uscito dai suoi incubi hentai più segreti. Quello che guardava di nascosto mentre Marco russava, vergognandosi dell’umidità che le bagnava le mutande davanti a quelle animazioni perverse. E ora eccolo lì, reale, che la apriva come un fiore carnivoro che aveva aspettato decenni il momento giusto per divorare la sua preda dall’interno. Ogni ventosa era un petalo che si chiudeva attorno alla carne, trasformandola da predatrice sociale in vittima consenziente di una botanica perversa.

Sentiva il tentacolo penetrarla sempre più a fondo ad ogni spinta. L’oggetto ruotava con sapienza chirurgica, esplorando angolazioni che risvegliavano terminazioni nervose sconosciute. Le ventose che lo percorrevano creavano un effetto ipnotico sulla sua carne, riaccendendo l’eccitazione con una rapidità che la sorprese. Poteva sentire chiaramente la sua figa fare un suono particolare, liquido, ogni volta che lui affondava il tentacolo dentro.

“Ricominciamo dal principio”, la voce di Dago si fece più dura, “non puoi venire senza il mio permesso.”

“Sì, Signore.” Le parole scivolarono dalle sue labbra con una naturalezza che la spaventò. Era come se quella sottomessa che rispondeva con tale prontezza fosse sempre esistita come software dormiente nel suo hard disk biologico, in attesa che qualcuno inserisse la password giusta per attivare protocolli di obbedienza che il suo DNA aveva scritto in linguaggio macchina.

Sentiva il tentacolo ora affondare completamente. Si ritrovò a pensare che, se Dago avesse spinto un po’ più forte, le avrebbe sfondato l’utero e le sarebbe arrivato fino in gola. Per tutta risposta si offrì meglio quasi chiedendo che arrivasse a quel punto.

Dago, per tutta risposta, estrasse il tentacolo, abbandonando Giulia a una sensazione di vuoto che, nel pieno dell’eccitazione, si trasformava in fame geologica, cratere che implorava di essere riempito. Non era solo assenza fisica ma buco nero emotivo che risucchiava tutto il piacere circostante, collassando su se stesso fino a diventare singolarità del desiderio. Con la coda dell’occhio lo vide muoversi tra gli strumenti, scegliere la prossima arma di piacere.

Lo sentiva, lo vedeva con la coda dell’occhio muoversi. Cercare tra i vari oggetti qualcosa, e tornare da lei. Girò appena la testa e lo vide, con un gesto deciso, piantare il dildo che aveva usato prima a pochi centimetri dalla sua faccia, le aveva afferrato i capelli. “Apri la bocca”, ordinò con quel tono calmo che non ammetteva discussioni.

Giulia obbedì senza un attimo di esitazione, e lui guidò le sue labbra verso il dildo che conservava ancora il sapore acre dei suoi orgasmi. La costrizione di assaggiare se stessa la eccitò in un modo che non riusciva a spiegarsi. Con la solita abilità aveva fatto passare la corda per l’anello del collare e poi aveva fissato i capi ai lati del tavolo, rendendole impossibile liberarsi completamente di quel fallo in bocca.

Poi aveva ripreso il plug. “Non vorrei che ti richiudesse, non vorrei che pensassi che prima di lasciarti andare via, non ti farò sperimentare anche quello.” Giulia rispose con un mugolio, un mugolio più lungo quando lo senti spingere, facilmente, dentro di nuovo il plug. Sentire quell’oggetto prendere posizione dentro di lei, dentro il suo culo cambiava ancora una volta gli equilibri del suo piacere. E quello era un oggetto statico. La sua mente stava cercando di immaginare come avrebbe potuto provare se un uomo l’avesse presa analmente, cercava di immaginare cosa si potesse provare, quanto poteva essere diverso.

Ancora una volta lui la lasciò vagare per qualche istante nelle sue fantasie per strapparla via repentinamente. Uno schiaffo per natica l’aveva riporta li, sul tavolo, legata, con un dildo in bocca e un plug nell’ano. La seconda coppia di schiaffi arrivò un pochino più forte. Dago sorrise vedendo come le sue chiappe velocemente cambiavano colore. “Chissà a cosa stavi pensando?” il tono era quello del dileggio. “Peccato che tu non possa rispondere.” Una altra coppia di schiaffi la porto a quel livello che dolore e piacere sembrano confondersi.

I secondi passavano, lui sapeva gestire il tempo abilmente, giocando con le sue emozioni, con il suo piacere. Di nuovo comparve il dildo a forma di tentacolo. Ovviamente ora la sensazione era diversa con il plug che restringeva gli spazi. “Non osare godere senza il permesso!” Il ricordo dell’ordine arrivò perentorio, mentre il tentacolo la invadeva rudemente. Avrebbe voluto dire qualcosa, avrebbe voluto dire di fare più piano, ma ora aveva capito per quale motivo le aveva messo il dildo in bocca. Chiuse gli occhi e si lasciò spingere in quella dimensione, focalizzando le poche forze rimaste sul controllo dell’orgasmo, che diventava sempre più invadente. E quando pensava di non riuscire a resistere di più, lui si era fermato un’altra volta.

Sentiva chiaramente questa corrente, partire dal basso ventre, dalla vulva e poi irrorarsi per tutto il corpo, arrivare fino alla punta delle dita delle mani, delle dita dei piedi, alla punta dei capelli e poi tornare a concentrarsi di nuovo nella sua figa. Il suo respiro era un rantolo di piacere, il verso di una nuova creatura che stava prendendo forma nel crogiolo del piacere. Era alchimia applicata alla carne: la materia grezza della moglie rispettabile che si fondeva per cristallizzare in qualcosa di inedito.

Secco, pungente, preciso arrivò sul gluteo sinistro un colpo, uno strumento nuovo. Fece in tempo a sentirlo sibilare un istante prima del colpo. Altri due colpi, calibrati, distanti, in punti diversi. “Lo hai riconosciuto?” Le chiappe, le cosce, vennero stimolate da una serie di colpi di cui ad un certo punto aveva perso il conto. “È il frustino da cavallerizza che hai scelto.” Le diede qualche secondo per realizzare, capire. Il colo successivo arrivò dal basso, colpendo il sesso aperto dall’eccitazione. Giulia istintivamente si spinse in avanti, obbligandosi in questo modo ad ingoiare tutto il dildo di gomma. Il suo cervello registrò che non aveva mai preso un membro in bocca così a fondo, archiviando quella scoperta tra le curiosità da esplorare. Per un istante le balenò il desiderio di provare quell’esperienza con il cazzo di quell’uomo che orchestrava il suo piacere con sadica maestria. Se non avesse avuto quel dildo a silenziare i suoi gemiti, forse avrebbe osato chiederlo. Forse.

Ma i colpi del frustino la strapparono violentemente da quelle fantasie proibite, riportandola alla cruda realtà del suo corpo offerto. Ogni colpo era un richiamo brutale al presente, alla sua carne che apparteneva a lui, contribuendo a creare quella sensazione che si diffondeva in tutto il ventre. Era qualcosa che sentiva accadere ma a cui non riesciva a dare una spiegazione. Aveva l’impressione che il sangue stesse reagendo a quei colpi. Che il sangue stesse iniziando a sobbollire, con ondate di calore che in alcuni momenti le avvampavano il viso, in altri le scaldavano la vulva facendole desiderare di essere posseduta in ogni modo possibile, essere scopata e fatta godere come lui aveva fatto prima con il dildo.

Aveva smarrito il conto dei colpi ricevuti quando, come se Dago avesse hackerato il firewall della sua mente e ora navigasse liberamente tra i file nascosti della sua psiche. Era hacker del desiderio che aveva trovato la backdoor del suo subconscio, accedendo a cartelle che lei stessa aveva dimenticato di possedere. Il tentacolo tornò a esplorare il suo sesso con rinnovata ferocia. Il passaggio dalla punizione al piacere fu così repentino da lasciarla senza fiato.

Quante volte l’aveva portata sull’orlo dell’orgasmo? Quante volte ancora glielo avrebbe negato per fiaccare la sua volontà? La mente, un’altra volta, si era parzialmente dissociata dal corpo. Guardando avanti aveva iniziato a succhiare quel dildo, quel cazzo finto, come se fosse il cazzo di Domenico materializzato da un viaggio nel tempo del desiderio. Il primo pompino della sua vita che tornava in 4K, rimasterizzato con la sapienza dei quarant’anni e l’affamata disperazione di chi ha finalmente capito cosa significhi avere fame vera. Domenico che quasi l’aveva canzonata per come era impacciata a prendere in mano e a succhiare il suo cazzo. Nemmeno fosse stato qualcosa di gigantesco. Ora, avrebbe voluto succhiarglielo con così tanta foga da strapparglielo via. E mentre faceva e pensava questo, ancora una volta l’immagine di sua madre, che scuoteva la testa, la guardava con disprezzo. E lei in risposta succhiava più forte, lo ingoiava tutto fino a quasi soffocarsi.

Le gambe le iniziarono a tremare. Forse perché stava raggiungendo quel limite che non le avrebbe permesso più di fermare l’orgasmo. Forse per colpa di come si stava quasi soffocando con il dildo.

Non si accorse nemmeno che lui aveva sfilato il tentacolo, ricoperto da una bava di piacere. Aveva solo sentito la mano che le afferrava con decisione i capelli e, con un gesto tra il rude e l’amorevole, sganciando le corde, le aveva sollevato la testa.

“Non mi avevi detto che ti piace così tanto succhiare il cazzo!”

Nella sua voce si potevano quasi percepire diverse emozioni. Chiare erano sicuramente la voglia di metterla alla prova, vedere fino a dove sarebbe potuta arrivare e, soprattutto, la voglia di mettere il proprio cazzo al posto di quello finto.

La mente di Dago ormai era entrata in quello che si chiama il top space, un luogo dove sei totalmente concentrato su quello che stai facendo all’altra persona, in ascolto, in modo che non possa succedere nulla di spiacevole ma anche percepire e in qualche modo vivere le emozioni e i piaceri che la persona sottomessa sta provando.

Ovviamente, in quello stato, quasi dimentichi le sensazioni del tuo corpo ed era già parecchio tempo che nei suoi pantaloni era racchiusa un’erezione. Il che significava che i suoi genitali iniziavano ad essere dolenti.

Ma aveva preso un impegno e, a costo di dover passare la notte con la borsa del ghiaccio sulle palle lo avrebbe rispettato.

Giulia era rimasta lì, arcuata, boccheggiante che cercava di tornare a respirare normalmente, mentre le colava bava come la protagonista di un porno che aveva visto, cercando di capire cosa sarebbe successo.

Senza mollare la presa dei suoi capelli con la mano destra, l’altra, rapidamente aveva sostituito il dido che lei aveva definito ‘normale’ con quello più grande e di un colore che ricordava il membro di un uomo di colore. Con gesti sicuri, Dago la riposizionò sul tavolo, concedendole però maggiore libertà di movimento. Giulia avrebbe potuto liberarsi dal fallo artificiale se avesse voluto, ma la sua bocca sembrava aver sviluppato una volontà propria come un’intelligenza artificiale che aveva imparato i gusti del padrone e ora ottimizzava autonomamente le prestazioni. Era biotecnologia erotica: labbra che si riprogrammavano per massimizzare il piacere dell’utilizzatore.

Nella sua trance erotica, la mente di Giulia si sdoppiò: una parte osservava dall’esterno mentre l’altra prendeva confidenza con quel fallo di silicone, decisamente più imponente di quello di Marco. Rispetto all’altro doveva tenere la bocca più aperta, ma nemmeno troppo. Piano piano valutava la lunghezza. “Guardami, guarda come lo succhio bene, sono certa che il mio Padrone è orgoglioso di me, voglio che il mio Padrone sia orgoglioso di me, desidero che il mio Padrone sia orgoglioso di me …” sussurrava alla madre.

Poi la mano di Dago si materializzò nei suoi capelli, afferrandoli con possessività calcolata.

“Fammi vedere quanto ti eccita succhiare questo cazzone”, mormorò, la voce carica di una fame che faceva eco alla sua.

La sua mano divenne una guida implacabile, spingendola sempre più in profondità finché la cappella di silicone non iniziò a battere contro la sua laringe, cercando spazi nuovi da conquistare. Giulia scoprì di non voler opporre resistenza – anzi, il corpo le chiedeva di arrendersi completamente a quella invasione volontaria. La mano la lasciò libera, ma oramai Giulia era in un’estasi irrefrenabile. Continuava a succhiarlo, come fosse un cazzo vero, come se si aspettasse che da un momento all’altro un’onda anomala di sborra le riempisse la bocca.

Mentre era presa da quella sua nuova piacevole attività, sentì le mani di Dago armeggiare con il plug, quel pizzico di dolore quando lo estrasse, la sensazione di sentire i muscoli dello sfintere rimanere aperti, dilatati, offerti, elevò ulteriormente il suo stato di trance.

Dopo avere desiderato di chiedergli di fargli un pompino, forse anche di scoparle la bocca, ora, in questo preciso momento gli avrebbe voluto urlare la supplica di sfondarle il culo. Un pensiero  le attraversò fugacemente la mente sul possibile dolore. Per un secondo le comparve l’immagine di sua madre che si tappava gli occhi. Un mugolio le uscì dalla bocca ripiena del dildo marroncino, un mugolio che improvvisamente salì di tono e di volume, trasformandosi in un urlo di sorpresa. Era sublimazione pura: la donna solida che evaporava in vapori di piacere per ricondensare in una forma completamente nuova. Non era più voce umana ma linguaggio primordiale che parlava direttamente alle sinapsi, frequenza pura del piacere che bucava il timpano della coscienza.

Il dildo che aveva in bocca un secondo prima, ora le stava sfondando il culo. Niente preparazione romantica, niente richiesta di permesso. Dago glielo aveva semplicemente piantato dentro, non aveva dato all’ano il tempo di restringersi, ci aveva spinto dentro subito la punta, usando i suoi stessi succhi come lubrificante, violando quel confine che nemmeno lei aveva mai osato varcare da sola. L’ultima frontiera del suo corpo cadeva senza resistenza, aprendo territori che esistevano solo nelle mappe proibite della fantasia.

Era una profanazione calcolata. Non la brutalità cieca del pornografico, ma l’invasione metodica di chi sa che sta riscrivendo le regole del piacere di un corpo. Ogni millimetro conquistato era una pagina strappata al manuale della rispettabilità borghese che le avevano cucito addosso. Il dildo che le devastava il culo la portava in regioni del piacere che non sapeva di possedere, che solo la carne comprendeva.

“Merda,” pensò, “mi sta inculando davvero.” Il pensiero era così crudo che quasi la fece ridere, un’isterica risata interiore. Quarant’anni di “signora per bene” cancellati da un cazzo di silicone nel culo. Per un istante assurdo, le venne in mente Marco. “Lì no, è sporco,” avrebbe detto, sua madre, invece, si sarebbe fatta il segno della croce.

E lei? Lei si scopriva più famelicamente viva che mai. Una pausa. Un respiro. La verità. Si stava aprendo come una puttana affamata che ha finalmente trovato il suo carnefice personale. Il bruciore iniziale mutò in qualcosa di indefinibile. Ogni spinta la riempiva in un modo che la figa non aveva mai saputo dare. Era come scoprire di avere un secondo cuore che batteva nel ventre, pompando un piacere sporco proprio dove le avevano insegnato che c’era solo vergogna.

“Così stretta,” mormorò Dago, quella voce che le accarezzava il cervello mentre le devastava il culo. “Vergine proprio come avevi detto.” C’era quasi tenerezza perversa in quella constatazione, come se stesse scartando un regalo di Natale che aveva aspettato tutto l’anno. E forse lo era: l’ultimo tabù di una donna che aveva passato quarant’anni a dire di no a sé stessa.

“Più forte,” avrebbe voluto urlare, ma il dildo in bocca trasformava ogni supplica in un mugolio animale. Così si limitò a spingersi indietro, ingoiando quel cazzo con il culo come una studentessa modello che vuole prendere il massimo dei voti anche nella materia più sporca.

Il tremore non era più confinato alle gambe. Si era diffuso come un contagio attraverso ogni fibra, un terremoto silenzioso che partiva dal punto dove quell’asta di silicone violava territori vergini. Era tettonica del piacere che spostava le placche della sua coscienza, ridisegnando la geografia di chi credeva di essere. Era come se Dago avesse scoperto un chakra segreto del piacere, una porta dimensionale nascosta nel suo corpo, passaggio segreto verso continenti di sensazioni che nessuno aveva mai scoperto.

“Lo vedo che sei al limite, ma stai resistendo – la mano continuava a muovere il dildo che sembrava, ad ogni movimento affondare di più – brava, sei proprio brava – Giulia ebbe la percezione di riconoscere la pausa, quella caratteristica pausa che lui faceva prima che qualcosa succedesse – meriti una ricompensa.”

La mano di Dago riprese il controllo del dildo con movimenti studiati, sfruttando ogni centimetro di quella lunghezza abnorme. Il ritmo iniziò lento come una locomotiva che lascia la stazione, ma la progressione era inesorabile. Giulia percepì l’accelerazione non solo nel movimento fisico, ma nella ferocia con cui lui reclamava il suo corpo. E man mano che quella locomotiva accelera, esce dalla stazione, è come se portasse Giulia in un nuovo viaggio. Lo sente invadere, affondare, spingere. A mala pena sente l’altra mano che avvolte la sua figa colante. Tutto il suo sentire è concentrato nel suo ano, in quel nuovo piacere che inaspettatamente sta crescendo di lei.

“Fammi vedere che puttana sei diventata in poche ore”, la voce di Dago graffiava l’aria come unghie sulla seta. “Fammi sentire se sei capace di darmi un orgasmo con il culo!”

Le parole la penetrarono più profondamente del silicone che la devastava. Era l’umiliazione di essere vista per quello che stava diventando: una donna che godeva mentre un uomo le sfondava il culo, che si eccitava nell’essere chiamata puttana.”

Il permesso di godere fu come aprire una botola sul pavimento della sua dignità. Per Giulia il treno del piacere aveva già lasciato la stazione, e lei era un passeggero senza biglietto di ritorno. Il dildo affondava sempre più rapido, sempre più crudele, trasformando il suo ano in un secondo centro dell’universo.

“Godo col culo,” si sentì pensare con chiarezza cristallina mentre il corpo veniva scosso da convulsioni. “Sto godendo mentre mi sfonda il culo e mi chiama puttana.” L’umiliazione di quella verità la eccitava quasi quanto il dildo che continuava a devastarla. Era disgustoso. Era divino.

L’orgasmo non arrivò come un’onda. L’orgasmo non arrivò come un’onda. Il suo corpo eruttò come vulcano che aveva covato magma per decenni sotto la crosta della rispettabilità. Fu un terremoto che partì da qualche parte tra l’osso sacro e l’anima, epicentro di una scossa tellurica che attraversò ogni fibra. La sua geografia interiore si ricomponeva dopo il sisma, terre emerse dove prima c’era solo oceano di repressione. Non il piacere liquido della figa a cui era abituata, ma qualcosa di tellurico, primitivo, che le risaliva dalla base della spina dorsale come mercurio bollente. Era il suo corpo che scopriva una nuova lingua, un dialetto sporco fatto di contrazioni e spasmi che non aveva vocabolario per tradurre.

Mugolò dentro il dildo che le riempiva la bocca, un suono che veniva da quando eravamo ancora animali nelle caverne. Il culo si contraeva attorno all’intruso di silicone come volesse stritolarlo, divorarlo, farlo suo. Non era più Giulia la contabile: era carne che godeva della propria profanazione, un tempio che celebrava la propria distruzione.

Una piccola parte di lei che ancora ragionava notò l’assurdità: stava avendo l’orgasmo della sua vita con un cazzo finto nel culo, legata come un pollo arrosto, con la bocca piena di un altro dildo. Eppure, era più reale e intenso di vent’anni di rapporti coniugali.

“Brava puttana,” lo sentì sussurrare mentre l’orgasmo la attraversava ancora. “Guarda come godi col culo. Neanche le troie di professione godono così.” E lei, invece di offendersi, sentì un’ondata di orgoglio perverso. Era la sua puttana. La migliore.

Fa giusto in tempo a pensare che non era un falso mito l’orgasmo anale, che l’altra mano di Dago inizia a strofinare furiosamente la sua figa, la sua clitoride, mentre il dildo non ha ancora smesso di incularla, il climax riparte rapido, violento. L’azione della mano è così intensa da farle provare una nuova miscela di dolore e piacere. La clito, gonfia, sovraesposta a stimolazioni è quasi dolente, ma riesce comunque a darle piacere.

Esplode. Il corpo che cede completamente, senza più dighe o controlli. Il liquido caldo colava lungo le cosce come miele, portando con sé l’odore intenso della propria resa – un cocktail di ferro e sale che le saturava le narici. La pelle era appiccicosa ovunque, ogni poro dilatato che trasudava l’eccitazione come resina da una corteccia ferita. Poteva sentire il proprio battito cardiaco echeggiare nel legno del tavolo, vibrazioni che si propagavano attraverso il corpo come onde sismiche di piacere. Non è il piccolo orgasmo pudico che si concedeva sotto la doccia. Questo è il suo corpo che si svuota, che rilascia tutto: tensione, controllo, anni di contenimento.

La figa pulsa come un cuore impazzito, ogni contrazione spreme fuori altro liquido. Sente l’odore acre e dolce insieme, sesso e urina mescolati senza pudore. Le cosce sono fradice, appiccicose. Il ventre si contrae in spasmi che non controlla, come se stesse vomitando piacere.

Lui non si ferma. Le dita continuano a lavorarla mentre lei cola, gocciola, inonda. Sente il legno del tavolo bagnarsi sotto di lei, sente i propri fluidi colarle fino alle ginocchia. È disgustoso. È liberatorio. È la sensazione di un corpo che finalmente fa quello che vuole, non quello che deve.

“Ancora,” la voce di lui è lontana mentre un altro spasmo la attraversa. E lei dà ancora, svuotandosi di tutto: orgoglio, pudore, quarant’anni di “brave ragazze non fanno così”. Ora è solo carne bagnata che pulsa e gode e cola senza vergogna.

Il silenzio calò come un sipario, carico dell’odore di sesso che aveva saturato l’aria fino a renderla quasi solida. Il suo ano pulsava di vita propria, la figa gonfia ad ogni contrazione rilasciava fiotti dei suoi umori. La pelle era ipersensibile ovunque, persino il movimento dell’aria sui capezzoli la faceva sussultare. Il sapore in bocca era cambiato: non più paura, ma qualcosa di ferroso e dolce, come quando si morde la lingua durante un sogno troppo intenso. La mente galleggiava in uno spazio siderale, sconnessa dal corpo che ancora tremava di scosse post-orgasmiche.

Sentì la sua voce dire qualcosa, poi le mani che la toccavano, liberavano dal dildo in boca lasciandola libera di respirare. Avrebbe voluto anche dire qualcosa ma le parole si mischiarono nella sua testa e la gola bruciava. Lo cercò con gli occhi, confidando che lui capisse.

“Lo so, non pensavi di arrivare fino a questo punto vero?” Giulia annuisce, mentre cerca di rimettere assieme il suo puzzle personale

“Non abbiamo ancora finito.” La voce di Dago le arrivò da quella dimensione sospesa dove il subspace rendeva tutto simultaneamente vicino e lontano, reale e onirico.

Le parole caddero nell’aria satura di sesso come una profezia. Non una minaccia, ma una promessa di ulteriore trasformazione.

Le sue mani iniziarono a sciogliere le altre corde senza distogliere l’attenzione da lei. Era un rituale diverso ora: non la cattura ma la cura. Ogni giro di corda che si allentava lasciava sulla pelle di Giulia un’impronta, un ricordo del piacere appena vissuto. Lei tremava, non di freddo ma di abbandono, il corpo che aveva dimenticato come sostenersi da solo.

Quando l’ultimo nodo cedette, lui la prese tra le braccia prima che lei potesse crollare. La sollevò con quella attenzione con cui si solleva un oggetto prezioso e fragile. Una mano le sosteneva la nuca, l’altra scivolava lungo la schiena ancora decorata dalle gocce di cera. Era una danza lenta dove lei era la ballerina inconsapevole. Sentiva le proprie membra rispondere docili, prive di volontà propria. Era diventata bambola di carne, ma una bambola curata e accudita.

Quando la schiena incontrò il legno, il contatto con i propri fluidi la fece sussultare. Freddo e caldo, sporco e pulito, tutto si mescolava in sensazioni che il cervello non riusciva più a catalogare. Lui le sistemò la testa con cura, spostando i capelli bagnati di sudore dal viso. Piccoli gesti di possesso che erano anche gesti di adorazione.

“Ecco così,” mormorò mentre le distendeva le braccia lungo i fianchi, poi ci ripensò e gliele portò sopra la testa. “Ora sei perfetta.” E lei si sentì perfetta, composta e ricomposta dalle sue mani come argilla divina.

Dago si chinò su di lei, il respiro caldo sulla sua pelle ancora febbricitante. Le sue labbra sfiorarono la fronte di Giulia, un bacio casto che contrastava con tutto quello che era appena accaduto. Era il sigillo di un patto non scritto, la promessa che quello che stava per venire sarebbe stato ancora più intenso.

“Sei stata straordinaria,” sussurrò, la voce che tradiva per la prima volta una crepa nel controllo perfetto. “Hai superato ogni mia aspettativa.”

A quelle parole un calore diverso le salì al petto, non di eccitazione ma di qualcosa di più pericoloso: orgoglio. Per quarant’anni aveva vissuto di briciole di approvazione, il “brava” distratto di Marco quando la cena era pronta, il cenno del capo del capoufficio quando i conti tornavano. Ma questo… questo era diverso. Era essere vista nella sua completezza di donna che aveva osato essere magnifica nella sua depravazione.

Un singhiozzo le sfuggì, metà pianto metà risa. Si sentì gonfiare di una gioia perversa, quella della studentessa modello che ha preso il massimo dei voti nella materia più sporca. “Straordinaria.” La parola le rimbombava nel cranio svuotato dagli orgasmi. Lei, Giulia la grigia, era stata straordinaria per quest’uomo che l’aveva vista spaccarsi in due e rinascere. Il bisogno di essere ancora più brava, di meritare altre lodi, le morse le viscere con una fame nuova.

Giulia cercò di parlare ma la gola era ruvida, abrasa dai gemiti e dal dildo. Lui le mise un dito sulle labbra, silenziandola con dolcezza. “Shh. Non serve che tu dica nulla. Il tuo corpo ha già parlato per te.”

“Resta così!” Ordinò con voce morbida. Si raddrizzò lentamente, lasciando che il suo sguardo percorresse ogni centimetro di quel corpo disteso e offerto. Il corpo di Giulia era diventato un campo di battaglia dove il piacere aveva vinto su ogni resistenza. I segni delle corde come geroglifici sulla sua pelle. Le cosce lucide di fluidi che raccontavano di orgasmi che l’avevano attraversata come tempeste. Il ventre che ancora pulsava di micro-spasmi. I capezzoli eretti come sentinelle che non avevano mai smesso di montare la guardia. La figa gonfia e aperta che continuava a colare la sua resa incondizionata. E quel viso… Cristo, quel viso dove la donna perbene era stata cancellata e sostituita da questa creatura affamata che lo guardava come se fosse dio e demonio insieme.

Era bellissima nella sua distruzione. Più bella di qualsiasi modella composta sulle copertine patinate, di qualsiasi santa nei dipinti sacri, di qualsiasi modella composta. Più bella di qualsiasi fantasia, di qualsiasi finzione, di qualsiasi perfezione costruita. Era vera, cruda, sua.

Giulia sentiva quello sguardo come una seconda pelle. Non era più l’essere guardata con disgusto di sua madre, né l’essere ignorata da Marco. Era essere contemplata nella sua completezza di donna che aveva attraversato il fuoco ed era emersa trasformata. Sotto quegli occhi che la divoravano con fame controllata, si sentì per la prima volta nella sua vita completamente, sfacciatamente bella. Non nonostante il disordine del suo corpo, ma proprio per quello. Ogni goccia di sudore, ogni segno sulla pelle, ogni fluido che ancora colava era una medaglia al valore nella guerra contro la propria mediocrità.

Dago si voltò e si diresse verso l’angolo della stanza dove aveva preparato il resto del suo arsenale. I suoi passi erano misurati, controllati, ma Giulia poteva percepire la tensione nel suo corpo, l’eccitazione trattenuta che vibrava sotto la superficie calma.

Mentre lui selezionava le nuove corde, testandone la consistenza tra le dita con gesti esperti, Giulia giaceva nel suo proprio disordine. I fluidi che si asciugavano sulla pelle, l’odore di sesso e sudore che saturava l’aria, il sapore metallico del sangue dove si era morsa il labbro. Era disgustosamente, gloriosamente viva.

Il suono della juta che frusciava tra le mani di Dago rilasciava un profumo vegetale, fibre naturali che sapevano di canapa e sudore di altre sessioni. L’odore si mescolava ai suoi fluidi corporei creando un incenso carnale che le annebbiava i sensi. La superficie ruvida delle corde prometteva nuove abrasioni sulla pelle già sensibilizzata, mentre l’aria della stanza si era fatta densa come brodo, carica di feromoni e aspettative.

Non di dolore, non più. Ma di trasformazione. La Giulia che era entrata in quella stanza ore prima non esisteva più. Al suo posto c’era questa creatura nuova, ancora senza nome, che attendeva di essere plasmata ancora.

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