DAGO HERON

Capitolo 3 Crepuscolo della Coscienza

Dago Heron - Corrispondenze Carnali - Capitolo 3 – Crepuscolo della Coscienza

L’aveva portata sul suo letto come un’offerta a un altare profano. Dopo la furia e la passione travolgente che avevano consumato ogni angolo della casa, era giunto il momento della calma e della dolcezza. I corpi ancora ardenti si cercavano nel buio con la familiarità di amanti antichi, come se le loro pelli conservassero la memoria tattile dell’altro anche senza vedersi.

Accarezzarsi, baciarsi, rotolare sul letto; tutto avveniva con lentezza misurata, in un’atmosfera dove i rumori esterni arrivavano ovattati, come se il mondo avesse rispettosamente abbassato il volume per lasciarli soli con i loro respiri e sussurri.

Avevano fatto l’amore lentamente, gustando ogni singolo movimento come sommelier del piacere. Ogni sfioramento era una nota in una composizione che solo loro potevano ascoltare. Erano scivolati da una posizione “canonica” all’altra con la fluidità dell’acqua che trova il suo percorso tra le rocce. Avevano iniziato con lui sopra, l’amante che sovrasta e conquista, e dopo mille cambiamenti e variazioni avevano finito con lei sopra, dea che domina e concede. Finalmente esausti, ogni briciola di energia fisica e psichica consumata come legna nel fuoco, erano scivolati nel sonno talmente in fretta che i loro sessi erano rimasti uniti, un ponte di carne tra due continenti di incoscienza. Questo aveva causato una continua e casuale stimolazione dell’uno sull’altra, un dialogo involontario tra corpi che rifiutavano di separarsi anche nell’oblio.

Durante le fasi di sonno, per qualsiasi uomo sano, le erezioni sono normali, meccanismi autonomi del corpo che marca il territorio dei sogni. Ma quella notte, le erezioni di Dago avvenivano nella figa di Roberta. Quando nel sonno quel membro tornava a riempirla, gonfiandosi dentro di lei come una marea che sale, il suo subconscio iniziava a creare sogni erotici di una vivezza sconvolgente. Un misto tra quanto era realmente accaduto e le fantasie ancora latenti che si agitavano come belve in gabbia nella parte più oscura della sua mente. Il suo corpo iniziava a vivere un sonno agitato, movendosi su quel cazzo da “sogno” fantasticando movimenti di focosa intimità.

Dal canto suo, Dago aveva sogni piuttosto agitati, pieni di immagini altamente erotiche, frammenti di desiderio che lo visitavano come quando era ragazzino, prima che la mente adulta imparasse a censurarsi. Il sogno prendeva conformazioni sempre più realistiche, scene che si solidificavano dall’astratto al concreto come acqua che congela. L’erezione poteva anche essere involontaria, un riflesso biologico, ma le sensazioni sembravano maledettamente reali. Nel sogno gli sembrava che una donna lo stesse montando, muovendosi lentamente, quasi impercettibilmente, su e giù. Sentiva il proprio corpo appesantito dal sonno e dalla stanchezza ma il cervello riceveva stimoli tali da riuscire di tanto in tanto a scuoterlo, a imprimergli una spinta violenta e improvvisa, come un nuotatore che riemerge per un istante prima di tornare negli abissi.

Solo a mattina inoltrata l’ennesima erezione, questa più potente, più imperiosa delle precedenti, riuscì a strappare Roberta dal torpore del sonno. Tra sogno e realtà, il suo corpo si svegliò prima della mente, ogni terminazione nervosa già pienamente consapevole di quella presenza aliena e familiare che pulsava dentro di lei. I recettori della sua figa mandavano segnali frenetici al cervello ancora annebbiato: cazzo, duro, dentro, pieno, adesso.

La sua coscienza emerse dall’oblio come un’onda che si forma e cresce lentamente, mentre la figa – quella creatura indipendente con volontà propria – già si contraeva ritmicamente intorno all’intruso gradito, stringendolo, massaggiandolo, invitandolo a restare. La sua carne interna, umida e gonfia, formava un guanto caldo e avido attorno all’asta che la occupava, stabilendo un dialogo silenzioso con essa.

Insonnolita e deliziosamente indolenzita, Roberta mantenne gli occhi chiusi, prolungando quel limbo tra essere e non essere. Il mattino filtrava attraverso le palpebre in una luce rossastra, e lei si mosse piano – un millimetro su, un millimetro giù – per calibrare la realtà. Cazzo, sì. Carne viva, pulsante. Un animale caldo che respirava dentro la sua figa, che viveva lì come se avesse trovato casa.

Il pene di Dago si era svegliato da un pezzo, ignorando la coscienza assopita del suo proprietario. Eretto con una durezza anomala, quella tipica delle erezioni mattutine quando la vescica è piena e il sangue si concentra, occupava la figa di Roberta come un conquistatore che reclama territori già esplorati.

Dago invece galleggiava ancora tra i vapori del sonno. La sua mente era un acquario torbido in cui nuotavano fantasie frammentate, incoerenti, ma tutte intrecciate al corpo di lei. Il cervello mandava segnali confusi, ma il cazzo sapeva esattamente cosa fare, dove essere. Quella parte di lui, la più antica, la più sincera, aveva una saggezza propria, un cervello autonomo che non aveva bisogno di altro per funzionare.

Roberta iniziò a muoversi con maggiore consapevolezza, ma ancora con cautela studiata. Scoprì che poteva alzarsi leggermente, fino a sentire la corona del glande allargarle le labbra interne, per poi riabbassarsi, inghiottendolo fino alla base, dove i peli pubici ruvidi le pizzicavano la carne tenera. Su e giù. Fuori e dentro. Un’estrazione lenta seguita da un’occupazione totale. Ogni volta che si abbassava, sentiva la sua sacca scrotale, morbida e pesante, sfiorarle il culo.

La sensazione di scoparlo mentre dormiva, di rubare un piacere non espressamente offerto, le provocò un fiotto di umori che inondò l’asta. Si sentiva una ladra, una predatrice notturna che si appropria di ciò che desidera nella penombra dell’incoscienza altrui. La sua figa, già gonfia per le ore di penetrazione notturna, reagiva con un’ipersensibilità quasi dolorosa. Le pareti interne, leggermente abrase e gonfie, mandavano impulsi esagerati al cervello ogni volta che l’asta le sfregava.

Doveva trattenere ogni gemito, ogni sussulto, imporre un rigido controllo a ogni movimento. Le sue cosce tremavano per lo sforzo di mantenere quel ritmo lento, metodico, mentre il bacino bramava di scatenarsi in spinte frenetiche. Il suo clitoride, gonfio e sporgente, sfregava contro il pube di lui ad ogni discesa, aggiungendo un ulteriore strato di piacere che minacciava di farla gridare.

Dalla figa percepiva scosse elettriche che si irradiavano a ondate concentriche. Il ventre si contraeva in spasmi involontari. La corrente di piacere saliva lungo la spina dorsale, un serpente elettrico che si arrampicava vertebra dopo vertebra fino a esplodere nel cervello in lampi bianchi. Era sempre più difficile mantenere quel controllo, quel silenzio necessario a preservare il fragile equilibrio tra il dormiente e la ladra di piacere.

Il respiro di Dago si era fatto più irregolare. Il sonno REM stava cedendo il passo a un dormiveglia pericoloso. Il suo corpo reagiva: lievi contrazioni del bacino, un accenno di spinta verso l’alto quando lei scendeva. Il suo cazzo sembrava aver aumentato ancora di volume, raggiungendo dimensioni che sfidavano i confini elastici della vagina infiammata di Roberta. Le vene dell’asta sporgevano come rilievi percepibili contro le sue pareti interne.

L’eccitazione di Roberta cresceva esponenzialmente, non solo per la stimolazione fisica ma per quel gioco perverso di potere e sotterfugio. Una parte del suo cervello fantasticava sulla possibilità che lui venisse dentro di lei senza mai svegliarsi, donandole il suo seme inconsapevolmente, in un atto involontario che aveva qualcosa di sacro e animale insieme. Voleva cogliere quella sborra come si coglie un frutto maturo: un raccolto non espressamente offerto ma naturalmente disponibile. Per la prima volta non doveva preoccuparsi del piacere di lui, dei suoi desideri, delle sue aspettative. Il cazzo la serviva senza che il suo proprietario lo sapesse, strumento separato dalla volontà.

La sua figa adesso grondava, succhiava, pulsava. L’aria nella stanza era impregnata dell’odore dei loro sessi uniti: muschio e sale, ferro e miele. I suoi capezzoli, duri come gemme, sfregavano contro il petto di lui, aggiungendo un altro piano di sensazione.

Dago intanto stava sognando di nuovo di lei. Nei meandri della sua coscienza offuscata la sentiva cavalcarlo, anche se il suo cervello interpretava quei segnali in una narrativa distorta e fantastica. Nel sogno erano in un bosco, o forse su una nave, ma la costante era la sensazione del suo cazzo avvolto in quella vagina stretta e calda che lo stringeva come un pugno di velluto. Sentiva in modo particolarmente vivido gli umori di lei colargli lungo l’asta e raccogliersi nelle pieghe della pelle dello scroto, un balsamo tiepido e viscoso.

E poi, in quel limbo grigio tra sonno e veglia, la sensazione divenne improvvisamente troppo intensa per essere ignorata. Il ritmo regolare e lento di Roberta stava accelerando impercettibilmente, tradendo la sua crescente eccitazione, il controllo che si allentava sotto la pressione del piacere imminente. La sua vagina aveva iniziato a contrarsi in maniera spasmodica, stringendo il cazzo in una morsa irregolare, spastica, che mandava segnali sempre più urgenti al cervello di Dago. Lo sperma iniziava la sua corsa verso l’uscita, un peso caldo e denso che si raccoglieva alla base, un’urgenza che nemmeno il sonno poteva ignorare.

Solo all’ultimo istante, quando la pressione era diventata insostenibile, quando le palle e i lombi già si contraevano per spingere fuori il loro carico, un segnale d’allarme squarciò la nebbia della semicoscienza. Una voce interiore urlò con la forza di un tuono: “Coglione, svegliati che stai per bagnare dappertutto!” L’urlo dall’arme delle polluzioni notturne adolescenziali, che arrivava sempre tardi.

I suoi occhi si spalancarono di colpo, fondendosi con quelli di Roberta che lo fissavano dall’alto, dilatati e febbricitanti. Lei era bellissima in quel momento. I capelli arruffati, la pelle arrossata, il viso contratto in quella smorfia di piacere che sfiora il dolore. Non c’era tempo per realizzare, per razionalizzare. Il corpo aveva già preso il comando.

“Vengo,” sussurrò lei, era un’affermazione, non un avvertimento. Quella affermazione provocò l’orgasmo di Dago, esplose dentro di lei, un getto potente che la innondò causando il simultaneamente il proprio orgasmo. I loro sessi pulsavano all’unisono ora, finalmente sincronizzati nella coscienza come lo erano stati nell’incoscienza.

Roberta gli si aggrappò con ferocia, piantandogli le unghie nelle spalle, mordendogli il collo con forza sufficiente a lasciargli un segno. Il suo bacino aveva perso ogni controllo, spingendosi contro di lui, cercando di impalarsi fino all’impossibile. Le sue contrazioni vaginali erano violente, quasi dolorose, spremendo il cazzo di Dago come per estrarne fino all’ultima goccia, mentre ondate di piacere le attraversavano il corpo, facendola tremare incontrollabilmente.

Dago sbatté le palpebre ripetutamente, gli occhi che mettevano a fuoco lentamente, cercando di ricostruire l’accaduto. Sentiva il corpo vibrare ancora per l’intensità dell’orgasmo, ma la mente era confusa, incapace di tracciare confini netti tra sonno e realtà, tra ciò che aveva sognato e ciò che era realmente accaduto. Il cazzo gli pulsava ancora dentro di lei, sensibile quasi fino al dolore, mentre gli ultimi spasmi gli strizzavano fuori residui di piacere.

Roberta si accasciò su di lui, il corpo ancora scosso da lievi tremiti, la pelle madida di sudore che scivolava contro la sua. Si rannicchiò, avvinghiandosi a lui come un koala al suo eucalipto. Il suo respiro era ancora affannoso quando gli sussurrò all’orecchio con voce rotta: “Non puoi continuare a farmi godere così… non puoi continuare a farmi desiderare di godere così…”

Le parole contenevano una contraddizione evidente: era un lamento o una richiesta? Un rimprovero o una preghiera? Il confine tra piacere e dolore, tra troppo e non abbastanza, si era fatto impercettibile.

Dago non le rispose. Le parole si rifiutavano di formarsi, come se il linguaggio fosse un’invenzione ancora troppo recente per il suo cervello primitivo, post-orgasmico. La accarezzò facendola scivolare su un fianco, le dita che tracciavano mappe segrete sulla sua pelle umida. La baciò con delicatezza, assaporando il gusto salato del suo sudore, mentre lei scivolava nel sonno, abbandonando il corpo all’oblio con la fiducia incondizionata di chi si sente al sicuro.

Lui era completamente sveglio ora, riportato alla coscienza dall’intensità dell’esperienza. I suoi sensi registravano ogni dettaglio con precisione esagerata: la curva morbida della spalla di lei, il respiro che si faceva più profondo, il profumo dei loro sessi fusi insieme che impregnava l’aria. Mentre cercava di capire cosa esattamente fosse successo, si rendeva conto che quella donna era in grado di dargli sensazioni sconosciute, inedite, che provocavano nuovi desideri e nuove fantasie.

Per certi versi si poteva definire anche pericolosa. Ma lui preferiva definirla stimolante, una sostanza che alterava la sua percezione della realtà in modi imprevedibili.

Scivolò fuori dalle sue braccia con la cautela di un ladro, lasciandola sola nel letto a proseguire il suo sonno. Il contrasto tra i loro stati di coscienza – lui perfettamente sveglio, lei sprofondata nell’oblio – creava una strana intimità asimmetrica, come se potesse osservarla da una dimensione parallela. La guardò ancora per qualche istante, incapace di staccare gli occhi da quel corpo abbandonato tra le lenzuola, la pelle ambrata che risaltava contro il bianco del cotone.

Si diresse in cucina, il corpo nudo che si muoveva nello spazio familiare con la disinvoltura di un animale nel proprio territorio. Aveva proprio bisogno di un gran caffè, di un’àncora che lo riportasse sulla terra ferma dopo quel viaggio fra le stelle. La routine quotidiana – il gesto di prendere la moka, di riempirla d’acqua e caffè, di posizionarla sul fuoco – aveva qualcosa di rassicurante, un rituale di normalità che contrastava con lo straordinario che aveva appena vissuto.

Mentre attendeva che il caffè salisse, sentì il proprio corpo ancora vibrare di un’energia residua, come un bicchiere di cristallo che continua a risuonare molto dopo che è stato percosso. Si accese una sigaretta, inspirando profondamente il fumo che gli riempiva i polmoni. Espirò lentamente, osservando le volute grigie danzare nell’aria della mattina, formando spirali e arabeschi che si dissolvevano come pensieri incompiuti. Guardava fuori dalla finestra, cercando di pensare, ma l’unica cosa che passava per il suo cervello erano le immagini e le sensazioni di quella notte, un film erotico che si ripeteva in loop nella sua mente, imprimendosi sempre più a fondo nella memoria. La consapevolezza lo colpì all’improvviso, come un pugno nello stomaco: voleva di più. Non solo sesso – quello poteva trovarlo ovunque – ma voleva di più di lei, di quella particolare alchimia che si creava quando i loro corpi si incontravano.