
Dopo mille indecisioni e continui scambi di “Decidi tu” e “No decidi tu”, Dago aveva optato per un ristorante indiano di cui aveva sentito parlare. In fin dei conti era anche vicino a casa, e lui non vedeva l’ora di avere nuovamente il corpo, la pelle di Roberta contro la sua.
I profumi e i sapori esotici della cucina indiana si adattavano perfettamente al loro spirito — quella miscela di spezie che prometteva trasgressione, quel calore che evocava lontane latitudini della carne. E poi quel posto era rinomato perché si mangiava con le mani, un ritorno a quell’intimità primitiva che annullava barriere.
Dago aveva sempre sostenuto uno stretto legame, una connessione tra il sesso e il cibo, quella comunione di piaceri primordiali che seguiva lo stesso percorso neurologico: anticipazione, esplorazione, appagamento. Pensava che potesse essere una parentesi interessante, un preludio carnale orchestrato attraverso altri sensi.
Erano stati fatti accomodare ad un tavolo tondo, con un comodo divanetto che permetteva loro di restare seduti vicino, i corpi che si sfioravano come per caso, elettrificando anche i gesti più banali. Il cameriere, con la calma tipica e il sorriso perenne degli indiani, li aveva guidati nella scelta dei cibi con la precisione di chi conosce il potere di ciò che serve. Il suo lavoro era stato facilitato dalla fame evidente nei loro occhi, non solo quella gastronomica.
Dago e Roberta avevano iniziato a raccontarsi quello che era successo in quel tempo in cui erano rimasti separati e che nelle e-mail non rendeva o non aveva trovato spazio. Parole che costruivano ponti attraverso quell’abisso di due anni, riempiendo vuoti con frammenti di vita vissuta, creando nuovi territori di intimità condivisa.
Il cibo, portata dopo portata, era arrivato sulla tavola, un’esplosione di colori e aromi che sembrava celebrare il loro ricongiungimento.
Inizialmente si erano praticamente abbuffati come due disperati che non mangiavano da mesi, il desiderio primordiale di nutrimento che temporaneamente sopraffaceva ogni altro appetito. Poi, man mano che lo stomaco si riempiva, avevano iniziato a gustare lentamente il cibo, entrando in quella dimensione di piacere consapevole dove i sensi si acuiscono. Distrattamente Roberta, mentre parlava o ascoltava, aveva iniziato a succhiarsi le dita ripulendole dagli intingoli che le rimanevano appiccicati, un gesto innocente nato dall’immediatezza del momento. Dago, ogni volta che la osservava farlo, riceveva piccole scosse di piacere, correnti elettriche che attraversavano la spina dorsale immaginando e ricordando quelle labbra fare la stessa cosa su una parte precisa del suo corpo, creando cortocircuiti tra memoria e desiderio.
Quando Roberta si accorse dell’effetto che quel suo gesto apparentemente ingenuo provocava in lui, iniziò a trasformarlo in qualcosa di deliberato, una comunicazione silenziosa che parlava un linguaggio più antico delle parole. Portava il cibo alla bocca con movimenti studiati, rallentati, la lingua che si mostrava un istante prima di accogliere il boccone, le labbra che si chiudevano con enfasi teatrale. Dago aveva iniziato a proseguire i discorsi con crescente difficoltà, la sintassi che gli si spezzava in bocca, continuando a bloccarsi nel mezzo delle frasi, quasi diventando balbuziente con il filo logico dei suoi pensieri completamente ingarbugliato dalle immagini che la sua fantasia proiettava nella sua mente come un film privato e osceno.
Roberta scivolò un po’ più vicino a lui sul divanetto, abolendo anche quella minima distanza che la convenzione sociale imponeva. Mentre lui tentava di continuare a parlare, qualcosa sulla trasformazione della sua carriera, parole che ormai galleggiavano senza significato nell’aria densa, iniziò a imboccarlo, una mano che gli offriva cibo, l’altra che gli sfiorava la coscia. Lasciava le dita sulle sue labbra in modo che potesse succhiargliele, un invito non verbale che non ammetteva fraintendimenti.
Dago smise di parlare. La conversazione, d’altronde, era diventata solo un veicolo per qualcos’altro, uno schermo sempre più trasparente per desideri che premevano per emergere. Roberta aveva smesso di seguire i suoi discorsi da parecchi minuti, distratta da altri appetiti più urgenti che reclamavano soddisfazione. Iniziarono a giocare con il cibo e le loro bocche in modo sempre più malizioso, sospesi in quella bolla di intimità che li isolava, senza nemmeno curarsi se gli altri avventori li guardassero o meno.
Dago cercava di tenere a freno la fantasia, consapevole che la sottile membrana tra pubblico e privato stava diventando pericolosamente permeabile. Erano in un locale pubblico e non era il caso di sdraiare Roberta nuda sul tavolo, cospargerla di bocconi da raccogliere poi con la lingua e con le labbra, trasformare la cena in un festino pagano dove corpi e cibo si fondevano in un’unica celebrazione carnale.
Mentre queste fantasie, alimentate dalle provocazioni di lei, facevano volare il desiderio ad altezze vertiginose, sentì la mano di Roberta appoggiarsi sulla sua gamba e risalire con determinazione misurata, cercando e trovando ciò che desiderava tra le gambe di lui. Dago la guardò con uno sguardo di sorpresa mista a desiderio e preoccupazione: erano in un ristorante, e anche parecchio affollato, un teatro sociale dove certi atti rimanevano confinati all’immaginazione. Roberta sorrise a quello sguardo così sorpreso, gli occhi che brillavano di una malizia che sembrava dirgli che le regole esistevano solo per essere infrante.
“O mi segui in bagno o ti faccio un pompino qui davanti a tutti!” sussurrò, il tono perentorio che non ammetteva discussioni.
Dago era disponibile a parecchie cose, aveva oltrepassato diversi confini nella sua vita, ma non se la sentiva proprio di restare in mezzo a tanta gente che lo fissava mentre lei, più o meno nascosta dal tavolo, lo portava a un’estasi incontrollabile. L’intimità poteva essere un gioco pubblico fino a un certo punto, oltre il quale qualcosa in lui ancora resisteva.
“Ti seguo…” le rispose con la gola strozzata dall’imbarazzo e dal desiderio, quella peculiare alchimia emotiva in cui la proibizione amplifica il piacere.
Roberta lo scaraventò nel piccolo bagno con un’urgenza che parlava di fame accumulata, chiuse la porta dietro di loro creando una microcosmo di possibilità proibite, e si buttò in ginocchio davanti a lui, slacciando così freneticamente i suoi pantaloni da sembrare volesse dilaniarli. Le sue dita, normalmente precise, ora fremevano di un’impazienza quasi violenta che rendeva goffi i movimenti più semplici.
Il sesso di Dago aspettava solo lei, gonfio di anticipazione. Liberato dalla stretta degli indumenti, puntava inequivocabilmente verso la sua bocca come un’entità autonoma che conosceva il proprio destino.
Roberta lo ammirò per qualche istante in un raro momento di calma contemplativa, una pausa misurata nell’urgenza, lasciando scivolare la mano lungo l’asta con la delicatezza di chi studia uno strumento prezioso. Quella breve sospensione creava un contrasto perfetto con la frenesia precedente, un momento di consapevolezza estetica dentro la tempesta del desiderio.
Poi vi appoggiò la bocca, le labbra morbide, calde, umide, accarezzandolo per tutta la lunghezza con la lingua in un gesto quasi devozionale, ricoprendolo di saliva, mentre le dita erano scivolate tra le sue gambe, a giocare con lo scroto e con le palle con una familiarità che escludeva esitazioni.
Dago chiuse gli occhi dal piacere per un solo istante, un riflesso involontario di fronte a quella scarica di sensazioni che lo attraversava, e lei ne approfittò per risucchiarlo avidamente tutto in bocca, una mossa opportunistica che parlava di attenta osservazione. Si sarebbe maledetto per avere perso quello spettacolo, quel preciso momento in cui l’espressione di lei si trasformava nell’accoglierlo.
Lasciò per un po’ che lei placasse il suo desiderio e le sue voglie succhiandolo come lei desiderava, concedendole quella parentesi di controllo, poi la afferrò per i capelli con la decisione di chi rivendica un territorio, sfilandoglielo dalla bocca in un gesto che mescolava dominio e ammirazione.
Roberta fece per protestare, un’ombra di frustrazione che le attraversava il viso, ma lui stava già spingendoglielo tra le labbra, riprendendo il controllo del ritmo, della profondità, del tempo. “Volevo solo guardarlo scomparire nella tua bocca!”
Roberta, a quelle parole, si sentì pervadere violentemente dal desiderio, una fiammata che le attraversava dal basso ventre fino alla gola. “Scopami!” gridò con lussuria, quella voce mutata, più grave e viscerale, che emergeva solo in questi momenti di abbandono totale.
Dago si concesse ancora qualche istante di piacere nella sua bocca, un’ultima indulgenza prima del cambio di scena, poi la strappò dal suo fallo con l’impazienza di chi ha aspettato troppo, mettendola in piedi. La appoggiò al muro con la fermezza di chi sa esattamente cosa vuole, mentre le apriva freneticamente la camicetta con una mano e le sollevava la gonna con l’altra, gesti simultanei orchestrati. La riempì con la violenza dell’esigenza di sentirla sua, un possesso che andava oltre il fisico, un’affermazione di reciproca appartenenza.
Roberta si aggrappò al suo corpo, usando le braccia e le gambe per afferrarsi a lui come un naufrago alla sua zattera, mentre Dago spingeva ripetutamente, con tutte le sue forze. Carezze, baci, morsi. I corpi sembravano ballare una capoeira del sesso, ancora affamati, desiderosi, l’uno dell’altro, come se tutto quello che avevano fatto e vissuto nelle ore appena passate non fosse successo.
Un minuto, dieci minuti, mezz’ora. Nessuno dei due si rese conto di quanto poteva essere passato. Il tempo si era liquefatto, diventando una sostanza malleabile che seguiva le curve del loro piacere invece che i ticchettii meccanici dell’orologio.
L’orgasmo li travolse ancora una volta, un’onda sismica che si propagava da un corpo all’altro senza soluzione di continuità. Rimasero avvinghiati, baciandosi mentre la curva del piacere lentamente scendesse a livelli accettabili, come paracadutisti che planano dolcemente dopo il salto nel vuoto. I sessi ancora uniti in un ponte di carne pulsante, le bocche che gustavano le ultime stille di piacere come degustatori di un liquore raro, cercando di trattenere il più possibile quell’attimo di perfezione prima che la realtà tornasse a reclamarli.
“Andiamo a casa,” disse Dago, quasi con un tono di supplica, gli occhi ancora accesi di promesse non mantenute.
Cercarono di risistemarsi, un rituale frettoloso di bottoni e capelli che sembrava solo sottolineare ciò che tentava di nascondere. Rientrati nella sala, gli sguardi degli altri commensali li avvolsero come un mantello invisibile. Una coppia di mezza età li fissava con disapprovazione non dissimulata, sentinelle di una moralità che avevano deliberatamente trasgredito. Un giovane solitario distolse lo sguardo troppo tardi, permettendo a Roberta di cogliere la sua invidia malcelata. Un gruppo di donne più mature scambiava sussurri complici, risatine che parlavano di memorie riaccese. Il cameriere passò con un sorriso ambiguo, come se non fosse la prima coppia a usare il bagno per scopi non previsti dal locale.
Sotto quella costellazione di occhi giudicanti e desideranti, Dago sentì una strana miscela di imbarazzo e orgoglio. Roberta, invece, sembrava nutrirsi di quell’attenzione, le guance colorate non di vergogna ma di eccitazione persistente.
Conclusero rapidamente la cena e sgattaiolarono verso la macchina, il tragitto verso casa che sembrava allungarsi con crudele elasticità temporale.
Roberta lo torturava deliberatamente. Mentre lui navigava un traffico ostile, lei gli lambiva il collo, le labbra premute contro la pelle calda dell’orecchio, sussurrandogli oscenità che suonavano come preghiere. “Voglio che mi scopi fino a farmi dimenticare chi sono,” gli mormorò, la voce ridotta a una vibrazione carnale che riverberava direttamente nelle sue viscere. “Voglio sentirti così profondamente dentro che sarò incapace di distinguere dove finisco io e inizi tu.”
Dago rubava baci a ogni semaforo rosso, una mano che risaliva la coscia fino a zone proibite. Se fossero stati in autostrada si sarebbe fermato alla prima piazzola. Ma non ora, non con la città che li separava ancora dal letto.
Posteggiarono e raggiunsero il portone quasi correndo, l’urgenza di adolescenti più che di adulti. Nell’ascensore, Roberta lo spinse contro la parete, le mani sotto la camicia a cercare pelle, le labbra che divoravano il collo, la mascella, la bocca.
Chiusero la porta e si fusero in un bacio furente. Le mani strappavano vestiti con urgenza disperata, bottoni che saltavano, cerniere forzate. La giacca di lui cadde, seguita dalla camicetta. Finalmente nudi, nello spazio di un respiro si studiarono, lei contro la parete, pelle ambrata che catturava la luce, lui inginocchiato, gli occhi scuri di un desiderio attraversato da due anni d’assenza.
Dago affondò la lingua nel centro del suo piacere, trovando la clitoride con memoria tattile perfetta. Le sue dita esploravano altre aperture, geometrie intime riscoperte. I gemiti di Roberta alimentavano la sua fame in un circuito perfetto.
La prese sul pavimento con un’urgenza che parlava di necessità più che di scelta. Ma non era abbastanza. Voleva sentirla abbandonarsi completamente. La guidò verso una sedia, sedendosi e facendola scivolare sopra di sé. Le permise di trovare il proprio ritmo mentre orchestrava una sinfonia parallela — la bocca sui capezzoli, le mani che modellavano le natiche, il sesso che riempiva uno spazio che sembrava esistere solo per lui.
Per qualche istante bocca e mani di Dago divoravano i suoi seni, un capezzolo imprigionato tra i denti, tirato fino al limite del dolore, mentre le dita affondavano nella carne delle sue natiche, marchiandola. Un dito, umido di saliva, invase quell’apertura stretta, facendola sussultare. La bocca risalì per reclamare le sue labbra, le lingue che lottavano per il dominio, mentre le mani esploravano e si impossessavano del suo corpo.
Roberta, con il corpo in fiamme, si staccò da lui e si mise a quattro zampe sul tappeto. Abbassò le spalle e alzò il culo, esponendosi completamente, un gesto che contemporaneamente era offerta e provocazione.
“Vieni a prendermi,” disse con voce roca, guardandolo da sopra la spalla.
Dago fissava quella vista, la fessura aperta, i suoi umori che colavano oscenamente lungo l’interno coscia, quel buchetto stretto che si contraeva nell’attesa. Si posizionò dietro, ma Roberta aveva già deciso cosa voleva. Schiacciò la guancia contro il tappeto e con entrambe le mani allargò le natiche, esponendo deliberatamente l’ano. Lo massaggiò con le dita, invitandolo, supplicandolo di farla sua in quel modo.
Dago non esitò. Puntò il cazzo contro quell’ingresso e spinse con forza, penetrandola fino in fondo. Un urlo strozzato eruppe dalla gola di Roberta mentre il suo corpo cedeva all’invasione, il dolore che rapidamente si trasformava in un piacere intenso, proibito.
“Scopami,” ansimò lei, spingendosi contro di lui per accoglierlo ancora più a fondo. La voce irriconoscibile.
I corpi si scontrarono con ferocia, il suono umido e osceno che riempiva la stanza. Quando sentì l’orgasmo avvicinarsi, Dago si sfilò da quell’apertura per affondare nella sua figa con una spinta brutale, dando un’improvvisa accelerata al piacere di Roberta. Lei gridò, il corpo attraversato da spasmi violenti mentre lui la riempiva col suo sperma caldo, pulsando dentro di lei, marchiandola come sua.
Impiegarono parecchio tempo a raggiungere il letto, i corpi sazi eppure ancora affamati, sospesi in quella strana economia del desiderio dove il consumo non diminuisce ma alimenta l’appetito. Era incredibile come ciascuno sapesse leggere con precisione quasi telepatica i bisogni dell’altro. Questa conoscenza profonda, questa compatibilità che andava oltre il semplice incastro di corpi, continuava a tenere viva la fiamma in entrambi, un’incredulità condivisa per ciò che avevano riscoperto.
A letto, abbracciati e avvinghiati come sopravvissuti a un naufragio, persino il più innocente dei gesti. Una carezza distratta lungo il fianco, un respiro contro la pelle dell’altro, acquisiva un potenziale pericoloso. Ogni punto di contatto sembrava una miccia pronta a riaccendere il desiderio.
Poi qualcosa cambiò nell’aria, quella densità particolare che precede le conversazioni che contano. Roberta si puntò su un gomito, cercando gli occhi di lui nella fioca luce della luna che entrava dalla finestra. Il suo viso aveva assunto quell’espressione di vulnerabilità misurata, di una persona che ha calcolato il rischio e ha deciso di parlare comunque.
“Cosa siamo io e te?” La domanda galleggiò nell’aria come una bolla di sapone, fragile e iridescente, potenzialmente distruttiva nella sua semplicità. “Cosa saremo io e te?”
Dago era completamente sorpreso, il volto che tradiva un improvviso ritorno alla realtà fuori dal calore post-coitale che ancora gli offuscava i pensieri. Fisicamente stanco e mentalmente in un’altra dimensione, quel limbo beato tra sonno e veglia che segue il piacere intenso, certo non si aspettava una domanda che richiedeva così tanta lucidità, così tanta onestà.
“Spiegati…” Guadagnava tempo, il cervello che cercava freneticamente di transitare dalla dimensione fisica a quella emotiva.
“Ci siamo aspettati per anni, e adesso siamo qui.” La sua voce conteneva una complessità di emozioni — desiderio, certo, ma anche quella particolare vulnerabilità di chi ha già investito troppo per poter fingere indifferenza. “Hai dei progetti? Siamo una scopata e via o siamo qualcosa di più?”
Lui continuava a guardarla con un misto di stupore e apprensione, come un uomo che si accorge improvvisamente che il terreno sotto i suoi piedi è più instabile di quanto credesse. Non se l’aspettava proprio quella domanda, non in quel momento. Le dita immobili, il respiro leggermente alterato, cercava dentro di sé una risposta autentica, qualcosa che si avvicinasse il più possibile alla verità senza rischiare di distruggere quel fragile paradiso appena riscoperto.
“Tu come la vedi?” La domanda classica di chi guadagna tempo, di chi teme di rivelare troppo prima di conoscere la posizione dell’altro.
“Non fare l’idiota, non cercare di far rispondere me…” Un lampo di irritazione attraversò il suo sguardo, quel particolare tipo di rabbia che nasce dalla delusione, dalla paura di confermare i propri timori.
Dago le accarezzò il viso, un gesto che era insieme scusa e rassicurazione. Le dita che tracciavano il contorno della mascella con una delicatezza studiata, cercando di placare quella rabbia appena nata, di impedirle di crescere e consumare questo momento.
“Non lo so cosa ne pensi tu,” iniziò, le parole che emergevano lentamente come cose vive cercando forma nell’oscurità, “ma credo che le relazioni tradizionali siano gabbie ben costruite.” Si passò una mano tra i capelli, cercando di articolare un pensiero che era più un’intuizione che un concetto definito. “Non è che non provi cose per te, anzi… ma dopo tutto questo tempo, dopo quello che abbiamo vissuto stasera, sento che meritano qualcosa di più autentico delle etichette preconfezionate. Non so ancora cosa potrebbe essere, solo che dovrebbe respirare ed evolversi naturalmente.”
Roberta studiò il suo viso nella penombra, i suoi occhi che sondavano oltre le parole, verso quella verità più profonda che vibrava tra loro.
“Sei un amante stupendo, sai intuire le mie fantasie prima che io stessa le formuli. Voglio tenere acceso per sempre questo fuoco che c’è in te.” La sua voce aveva assunto una qualità particolare, a metà tra vulnerabilità e determinazione. “Anche a me non piace l’idea dei fidanzatini che si devono vedere tutte le sere. Ho i miei impegni e voglio anche la mia libertà. Ma voglio anche te!”
“Hai qualche soluzione?” chiese lui, sorpreso dalla convergenza dei loro pensieri, come se avessero navigato su rotte separate per giungere allo stesso porto sconosciuto.
“Forse…” Roberta si interruppe, cercando le parole giuste, quelle che potessero contenere l’enormità di ciò che stava cercando di esprimere. “Viviamo… viviamo giorno per giorno… e facciamoci una promessa…”
Dago si sedette sul letto per vederla meglio, emergendo dalle ombre in cui erano avvolti. Restò in silenzio, un’attesa carica di aspettativa che riconosceva l’importanza del momento, di quelle parole che potevano ridefinire i confini della loro esistenza condivisa.
“Voglio che tu mi dica tutte le fantasie che ti passano per la testa e voglio essere io quella che cercherà di soddisfarle…” Le parole erano semplici ma cariche di significato, un patto di intimità che andava oltre il sesso, un’offerta di vulnerabilità reciproca che poche persone osano fare.
Dago la prese tra le braccia, baciandola dolcemente, poi si staccò guardandola nel profondo degli occhi scuri “Raccontami la prima fantasia che ti passa per la testa … “,
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