DAGO HERON

Capitolo 6 Riflessi condivisi

Dago Heron - Corrispondenze Carnali - Capitolo 6 – Riflessi condivisi

 Un sogno. Cosa altro poteva pensare che fosse?

Dago galleggiava in quello stato di torpore che segue un sonno profondo, quella terra di nessuno dove coscienza e fantasia si fondono in un’unica sostanza densa, impossibile da separare. La sua mente oscillava tra realtà e immaginazione, incapace di tracciare confini netti tra l’una e l’altra.

Ricordava. Ricordava di aver fatto l’amore con lei, di averlo fatto diverse volte, i loro corpi che si cercavano con la fame di chi ha atteso troppo. Un sogno come tanti altri, come i mille che avevano popolato le sue notti in quei due anni di assenza. Sogni così vividi, così carnalmente reali da svegliarsi con i boxer appiccicosi del proprio piacere, il corpo ancora vibrante di un godimento che svaniva troppo in fretta, lasciando solo l’eco di un desiderio insoddisfatto.

Eppure qualcosa in fondo alla coscienza, un sussurro quasi impercettibile, cercava di dirgli che questa volta era diverso, che non era un sogno.

Improvvisamente, qualcosa colpì uno dei suoi sensi. Il dubbio si trasformò in una possibilità tangibile.

Un profumo. Non un profumo qualsiasi. Un profumo femminile, inconfondibile nella sua unicità. Non avrebbe saputo nominarlo, ma era impresso nella sua memoria olfattiva come un codice di riconoscimento biologico. La sua mente, ancora avvolta nelle nebbie del sonno, non riusciva a collegare completamente quella firma olfattiva al ricordo che spingeva per emergere.

Concentrò tutte le sue forze su quella traccia invisibile. Ne inspirò una quantità abbondante, come un assetato che trova una fonte inaspettata, quasi volesse riempire ogni cellula del proprio corpo con quella sostanza eterea. E come se fosse un elisir miracoloso, qualcosa scattò dentro di lui, un meccanismo che finalmente si allineava.

Ora non aveva più dubbi: era il suo profumo, il profumo di Roberta.

Lentamente, la memoria ritornava, i frammenti che si ricomponevano come tessere di un mosaico. Ricordava l’appuntamento per le fotografie, la donna misteriosa velata di enigma, l’attrazione istintiva e incontrollabile, il desiderio che era sfociato in giochi di piacere sempre più intimi, fino alla rivelazione delle loro identità.

La gioia che aveva seguito, mischiata alla sorpresa e allo stupore. I baci affamati e le mille parole sussurrate nell’oscurità, ma soprattutto i loro corpi che si univano ripetutamente, come cercando di recuperare tutto il tempo perso, fino ad essere stremati.

L’ultima cosa che ricordava era lei tra le sue braccia, i loro cuori che galoppavano allo stesso ritmo, sincronizzati in una danza primitiva, e la netta sensazione di avere stampato sul viso un sorriso idiota, quello di un uomo finalmente completo. Ricordava anche la sensazione di felicità pura, un’emozione che non provava da tempo, da tanto tempo, circa due anni, per l’esattezza.

Ma ora lei non era più tra le sue braccia, e dopo una veloce ispezione a tastoni, si rese conto che non era nemmeno nel letto. Solo per un attimo sentì stringersi lo stomaco in una morsa di paura irrazionale che le sussurrava: forse è stato tutto solo un sogno, un bellissimo, doloroso sogno.

Tentò di aprire gli occhi con fatica, le palpebre pesanti come tende di piombo. Non aveva la più pallida idea di che ore fossero, né avrebbe potuto giurare con certezza sul luogo esatto in cui si trovava. La stanza era immersa quasi completamente nell’oscurità. Lentamente, il ricordo affiorò: aveva spento i riflettori e quasi tutte le luci dello studio nel tentativo di creare un’atmosfera più intima. I suoi occhi, adattandosi gradualmente alla penombra, iniziarono a distinguere la geometria familiare degli oggetti circostanti.

Di lei continuava a non trovare traccia, eppure il suo profumo persisteva, una presenza invisibile ma innegabile. Lo sentiva sulla propria pelle, come un tatuaggio olfattivo, e lo ritrovava nell’aria. Il ricordo sensoriale si fece strada nella sua coscienza: era lo stesso aroma che impregnava l’aria quando facevano l’amore, quell’essenza distintiva che nasceva solo dalla loro unione, una firma chimica unica, irriproducibile.

Concentrò lo sguardo verso un angolo della stanza dove gli era parso di notare un movimento. Lentamente mise a fuoco e finalmente la vide.

Roberta aveva indossato soltanto una camicia, la sua camicia, e stava in piedi davanti ai grandi specchi che lui aveva allestito per i servizi fotografici più intimi. Il tessuto, intriso del suo odore maschile, le cadeva morbido a metà coscia, creando quell’effetto di vulnerabilità vestita che nessun nudo avrebbe potuto eguagliare. Si pettinava i lunghi capelli castani, precedentemente nascosti sotto la parrucca, con movimenti lenti e ipnotici. Vedere il suo indumento abitare quel corpo femminile, come un’estensione di sé stesso che la avvolgeva anche in sua assenza, risvegliò in lui qualcosa di primitivo e possessivo. Un fremito gli percorse la spina dorsale, un’onda elettrica che trasportava con sé il desiderio viscerale di avvicinarsi, toccarla, reclamarla. Il suo corpo nudo rispondeva già a quella visione, il membro che si ridisegnava, richiamato a nuova vita dalla promessa contenuta in quella semplice visione.

Scivolò fuori dal letto silenziosamente, muovendosi come un predatore, sfruttando le ombre come alleate. Roberta era talmente assorta nel suo rituale davanti allo specchio da non percepire il suo avvicinamento. Se lo ritrovò improvvisamente alle spalle, sussultando per un istante, prima di abbandonarsi all’abbraccio con un’esalazione di sollievo.

Dago iniziò a baciarle il collo, inspirando profondamente e con avidità il suo profumo, come se volesse conservarlo nei polmoni per sempre.

“Cazzo, quanto mi sei mancata…” le sussurrò all’orecchio, il fiato caldo contro la pelle sensibile.

Roberta era felice almeno quanto lui per quanto era accaduto. Essere in quel momento tra le sue braccia, sentire fisicamente quanto la desiderasse ancora, andava ben oltre ciò che aveva sperato di ottenere con il suo stratagemma delle fotografie. Si sentiva invadere da sensazioni singolari, uniche, e contemporaneamente percepiva un nuovo fuoco accendersi nelle sue viscere.

Ma c’era anche altro. Un bisogno primordiale che si faceva strada con prepotenza. Non sapeva come comunicarglielo senza spezzare l’incantesimo, come fare per non offenderlo. La fame, quella vera, biologica e insistente, le mordeva lo stomaco con denti affilati. La tensione accumulata durante la preparazione di quella serata le aveva serrato lo stomaco per l’intera giornata. A parte una colazione estremamente leggera, non aveva ingerito praticamente nulla. Ora, dopo aver bruciato innumerevoli calorie nelle loro attività appassionate, dopo che l’adrenalina della tensione si era finalmente dissolta, il suo corpo reclamava nutrimento con una voce che diventava impossibile ignorare.

Stava per tentare di articolare questa necessità quando lui iniziò a far scorrere le mani lungo il corpo. Quelle dita conoscevano percorsi e sentieri che innescavano reazioni immediate, creando un conflitto interno delizioso e frustrante. Il suo corpo si ritrovava diviso tra due appetiti ugualmente imperiosi: quello carnale, risvegliato dal tocco sapiente di Dago, e quello elementare della fame fisica che le torceva le viscere. Due tipi di desiderio che si contendevano la precedenza in una battaglia tanto antica quanto l’umanità stessa.

Quelle mani possedevano una qualità quasi soprannaturale. Si muovevano con la lentezza deliberata di chi conosce il valore dell’attesa, aderendo alla pelle come un fluido intelligente, adattandosi al suo corpo con precisione. Come un camaleonte che muta colore per fondersi con l’ambiente, così le sue mani sembravano diventare parte di ciò che toccavano, annullando il confine tra soggetto e oggetto.

Emanavano un calore anomalo, quasi febbrile, che trasmetteva messaggi più profondi di qualsiasi parola. Non restavano in superficie, la loro magia stava in quella strana capacità di comunicare anche con gli strati più profondi della pelle, come se toccassero direttamente i tessuti, i nervi, il sangue pulsante nei capillari. Era una sensazione di penetrazione tantrica, animica.

Quelle mani avevano la capacità di scoprire punti nevralgici del suo corpo meglio di quanto lei stessa sapesse fare. Scovavano punti erogeni di cui ignorava l’esistenza, territori sensoriali inesplorati che si risvegliavano sotto quel tocco sapiente. Ogni nuova scoperta le provocava un piacere che la sorprendeva per intensità, come aprire porte segrete in una casa che credeva di conoscere perfettamente.

Ora scivolavano leggere come piume sulla sua pancia, tracciando spirali dall’ombelico verso l’esterno, giocando con il contrasto tra la pelle nuda e il tessuto della camicia che aveva indossato. Poteva percepire la differenza di temperatura tra la propria epidermide e il cotone che ancora conservava tracce del calore di lui.

Sentì i palmi appoggiarsi alla base del suo ventre, esercitando una pressione rassicurante prima di iniziare la loro lenta ascesa verso i seni. Contemporaneamente, la bocca di Dago le ricopriva il collo e le spalle di baci che somigliavano più a un’impronta che a un contatto. Baci che sembravano volerla marcare, rivendicare.

Roberta chiuse gli occhi, amplificando così le sensazioni tattili. L’anticipazione del contatto imminente con i suoi seni diventava essa stessa una forma di piacere acuto, quell’intervallo elettrico tra il desiderio e il suo appagamento. Le sentì avvicinarsi, raccoglierli dal basso come coppe calde che li soppesavano, ne apprezzavano la consistenza con una sorta di devozione tattile. Quel momento di valutazione, di conoscenza attraverso il tatto, sembrò dilatarsi nel tempo, creando una parentesi temporale in cui esisteva solo quella connessione. Poi le mani li avvolsero completamente, stringendoli con quella particolare alchimia di forza e delicatezza che solo lui sapeva dosare.

La fame biologica, quella necessità primordiale che poco prima le torceva le viscere, evaporò dalla sua coscienza come rugiada al sole. Un appetito più urgente prendeva il sopravvento. Sentiva i capezzoli, mentre una corrente calda si irradiava verso il basso, risvegliando la sua femminilità che pulsava e si inumidiva in risposta. La durezza crescente che sentiva premere contro le sue natiche fungeva da catalizzatore, amplificando ogni sensazione.

Le dita di Dago iniziarono a circondare i capezzoli, creando spirali concentriche che si stringevano gradualmente verso quei punti sensibili, fino a sfiorarli attraverso il tessuto. Li stuzzicava, li provocava, orchestrando con pazienza la loro trasformazione in punte turgide che reclamavano attenzione. Roberta li sentiva quasi pulsare autonomamente, piccoli epicentri di piacere che inviavano onde sismiche attraverso il suo corpo. Un gemito le sfuggì dalle labbra, non tanto una richiesta quanto un riconoscimento di resa.

Lui intensificò la pressione, prendendo i capezzoli tra indice e pollice, iniziando a stringerli con crescente intensità. Calibrava quella pressione con la precisione di un musicista che accorda uno strumento, cercando la nota esatta in cui il dolore si trasforma in piacere. E lo trovava, ogni volta, quel punto di perfetta tensione in cui lei non voleva che si fermasse, ma che continuasse proprio così, in quell’esatto equilibrio tra troppo e non abbastanza.

Lei non riusciva più a mantenere l’immobilità. Il corpo iniziò a muoversi autonomamente, un ondeggiare ritmico contro l’erezione di lui, una danza antica quanto la specie umana. Era un invito non verbale, una supplica corporea, un tentativo di seduzione per indurlo a compiere quel passo successivo, a riempirla nuovamente con la sua essenza.

Ma Dago non aveva fretta. Continuava la sua esplorazione metodica, ora spostando la camicia per accedere direttamente alla pelle. Le sue mani tracciavano il contorno dei seni, seguendone la perfetta rotondità, studiando la topografia delle vene appena visibili sotto l’epidermide. C’era qualcosa di quasi scientifico nella sua esplorazione, un’attenzione ai dettagli che rendeva l’esperienza ancora più intima.

Roberta aprì gli occhi, incontrando il suo sguardo nello specchio. La visione era ipnotica: lui che la guardava non direttamente, ma attraverso il riflesso, studiando le reazioni del suo corpo come un musicista osserva il pubblico per calibrare la propria esecuzione. Osservava le proprie mani muoversi sulla pelle di lei con un’attenzione quasi clinica, annotando mentalmente ogni sussulto, ogni respiro trattenuto, ogni microtensione dei muscoli. Cercava di decifrare quella complessa partitura di piacere, imparando a memoria ogni nota, ogni pausa, ogni variazione di intensità, per comporre la perfetta sinfonia dei sensi.

Le prese entrambe le mani, guidandole con le proprie sui seni di lei in un gesto che sembrava trasferirle non solo il controllo fisico ma una forma di responsabilità sul proprio piacere. La invitava a un’autonomia guidata, a un paradosso intimo in cui lei diventava simultaneamente soggetto e oggetto della propria espressione erotica. Le lasciò scegliere la pressione, il movimento, il ritmo, mentre lui concentrava la sua attenzione sui punti focali di quel paesaggio di carne.

Portò le dita alla bocca di Roberta – un gesto allusivo. Lei le accolse tra le labbra con avidità, avvolgendole con la lingua, bagnandole di saliva in una parodia liquida di altro tipo di intimità. Era un rituale preparatorio, una cerimonia dell’umido. Quando le dita emersero lucide dalla sua bocca, lui le utilizzò come strumenti di precisione sui capezzoli, creando circuiti di sensazione amplificata dalla sua saliva.

La stimolazione aveva ormai superato quella soglia critica oltre la quale il cervello non distingue più la natura precisa delle sensazioni. Il piacere e il dolore si fondevano in un’unica corrente elettrica che attraversava il corpo di Roberta, una confusione neuronica che annullava le categorie razionali, lasciando solo l’intensità a dominare il campo percettivo.

Come se avesse intercettato questa saturazione sensoriale, quasi in una forma di telepatia tattile, le mani di Dago abbandonarono i seni, guidandole le mani in una migrazione verso sud. Scivolarono lungo il piano morbido dell’addome, pronte ad esplorare i territori del piacere più intenso.

Quelle mani, divenute ora ancora più calde come se avessero assorbito il calore del suo stesso desiderio. Si muovevano esplorando ogni millimetro del corpo di Roberta, trasformando centinaia di notti in cui aveva immaginato di accarezzarla in una realtà carica di passione e desiderio. Si dirigevano verso l’epicentro di ogni fantasia che aveva occupato la sua mente per due anni.

Le mani di Dago orchestrarono una progressione misurata, prima le cosce, in una carezza esplorativa che però non nascondeva la sua natura transitoria, poi un’avanzata diretta, senza deviazioni, verso quella che era stata l’ossessione delle sue notti solitarie. Entrambe raggiunsero contemporaneamente quel bersaglio umido, in una simmetria perfetta. Si adattarono alla sua figa, aderendo come una seconda pelle, creando una guaina di calore che precedeva il movimento.

Un dito scivolò tra quelle labbra bagnate, trovando una conferma che superava ogni fantasia. Era così fradicia che il dito la penetrò senza alcuna resistenza. Questa verifica tattile provocò in lui un fremito che percorse la sua spina dorsale per poi concentrarsi nel cazzo, che pulsò violentemente contro le natiche di lei. Roberta strinse i seni tra le mani, mentre i suoi occhi restavano incollati allo specchio davanti a loro, ipnotizzata dal proprio sguardo di puttana in calore che non aveva mai osato mostrare ad altri, nemmeno a se stessa.

Le gambe di Roberta si aprirono con la naturalezza dei fiori al sole, senza bisogno di istruzioni, esponendo completamente la sua figa allo sguardo condiviso. Le dita di Dago, con una delicatezza che contrastava con la volgarità dei loro pensieri, aprirono quelle labbra, esponendo il clitoride gonfio e pulsante, lucido di umori che scendevano in rivoli sempre più copiosi. Le sue dita sapevano esattamente dove andare, come se quella figa gli appartenesse da sempre, come se fosse un territorio conquistato anni fa e mai dimenticato.

Iniziò una lenta tortura, infilando un solo dito dentro di lei, per poi sfilarlo pieno della sua essenza, dei suoi umori e dirigersi con lentezza studiata verso quel punto nevralgico. Al primo contatto con la clitoride, Roberta avvertì come una scarica elettrica che si irradiava dal centro verso le estremità del suo corpo, in onde concentriche che si espandevano come cerchi nell’acqua. Si sorprese della potenza di quella sensazione – pur conoscendo intimamente il proprio corpo, raramente riusciva a procurarsi un piacere così mirato, così immediato. Questo pensiero, questo confronto tra l’autoerotismo e il tocco altrui, attraversò il suo campo mentale fugacemente, subito dissolto dalla crescente intensità delle carezze.

Lo specchio diventava ora uno strumento di amplificazione dell’esperienza, un terzo partecipante silenzioso che permetteva a Roberta di osservare il metodico lavoro delle dita di Dago. Poteva vedere come accarezzavano il clitoride con precisione calibrata, senza indugiare eccessivamente sul punto più sensibile, dedicando invece attenzione strategica alle aree circostanti, particolarmente a quella zona appena superiore, dove il cappuccio del clitoride nascondeva terminazioni nervose spesso trascurate.

In un gesto di completo abbandono, Roberta lanciò le braccia all’indietro, trovando il collo di lui come ancora di stabilità in un mare di sensazioni instabili. Si aggrappò a lui con l’urgenza di chi rischia di essere trascinato via dalla corrente, mentre il suo corpo iniziava a muoversi con vita propria, ansimando e gemendo vicino al suo orecchio. Ondeggiava tra le braccia di Dago, contro il suo corpo saldo, in un ritmo frammentato e istintivo, come se stesse recuperando un tempo perduto, colmando mesi di assenza in pochi istanti di connessione totale.

“Non smettere di guardare,” le sussurrò lui, la voce ridotta a una vibrazione animale, primordiale.

Anche volendo, Roberta non avrebbe potuto distogliere lo sguardo. Lo specchio la imprigionava con una forza ipnotica, mostrandole la bestia a due teste che stavano diventando. Vide la mano di Dago scendere con decisione sul suo clitoride, nessuna esitazione, nessuna gentilezza – solo fame. Sentì quelle dita affamate premere e ruotare, aumentando ritmo e intensità con ogni passaggio, spingendola verso un abisso di piacere che le scioglieva le gambe come cera sotto una fiamma.

Dago prese il controllo del suo corpo ancora una volta, come un burattinaio che muoveva i fili della bambola. La fece scivolare sopra di lui, Roberta si ritrovò seduta su di lui, esposta, vulnerabile, completamente alla sua mercé.

Le allargò con decisione le cosce, senza chiedere permesso, mentre lei sentiva la pressione dura del suo cazzo contro il culo. La penetrazione fu lenta e totale – le invase quel passaggio senza preparazione, riempiendola completamente fino alla radice. Un dolore elettrico che si trasformò istantaneamente in un piacere osceno, proibito.

Senza darle tempo di adattarsi, le dita tornarono sulla sua clitoride, creando un cortocircuito di sensazioni che le strapparono un grido rauco dalla gola. Roberta rimase inchiodata allo specchio, ipnotizzata da quell’immagine pornografica di sé, il suo corpo infilzato, posseduto, le dita che lavoravano la sua carne bagnata con metodica brutalità.

Non poteva restare ferma. Iniziò a cavalcarlo con frenesia crescente, alzandosi e abbassandosi su quel cazzo, guidata da qualcosa di inconscio e irresistibile.

“Tocca quella figa bagnata,” le ordinò, la voce roca di un predatore, mentre le sue mani le afferrarono i fianchi, controllandola mentre intensificava la decisione dei movimenti. “Fatti venire su questo cazzo.”

Cercò di replicare la pressione delle sue dita, ma era come un’allieva inesperta che tentava di imitare un maestro. Sentì le mani di lui, roventi come tizzoni, piantarsi sotto le sue natiche, guidandola in movimenti sempre più profondi, più brutali.

“Più forte, cazzo,” insistette, e Roberta si concentrò sulla donna nello specchio, lussuriosa e irriconoscibile con gli occhi ribaltati e le labbra contorte, il viso deformato da un piacere animalesco. Era così oscenamente eccitante vedersi ridotta a quella creatura di puro istinto che la sua mano aumentò la pressione, sfregando violentemente quel bottone di carne ipersensibile, con movimenti che non aveva mai fatto prima.

Gemiti selvaggi le uscivano incontrollati, suoni bestiali che non aveva mai emesso prima, qualcosa tra l’ululato e il singhiozzo mentre il piacere diventava quasi insostenibile.

Improvvisamente, le mani di Dago si sovrapposero alle sue, assumendo il controllo con autorità brutale. Il suo cazzo pulsava dentro di lei come una creatura autonoma, piantato a fondo nel suo culo. Cedette il controllo, rinunciando a ogni pretesa di indipendenza, affamata di quel piacere spaventoso che solo lui sapeva strapparle dalle viscere.

Quando Dago sentì nuovamente la figa bagnata sotto le sue dita, qualcosa si spezzò nel suo autocontrollo. Mosse tre dita in un movimento circolare sempre più violento, premendo con forza crescente, manipolandola come uno strumento studiato per anni.

Poteva sentire il clitoride di Roberta gonfio e duro sotto quell’assalto implacabile, rispondere con un piacere che sconfinava nel dolore. Era come premere un detonatore, osservando il timer accelerare verso l’esplosione.

Roberta sentì un’ondata devastante colpirla, cancellando ogni pensiero, ogni identità. Per un istante, cessò di esistere. Poi, brutalmente, ogni cellula del suo corpo esplose in un orgasmo che la disintegrava, provocandole convulsioni così violente che dovette aggrapparsi alle braccia di lui per non collassare.

Dentro quella tempesta di piacere, sentì Dago venirle dentro con potenti schizzi che le riempivano il culo, unendo i loro corpi in un’unica bestia urlante, mentre le sue dita continuavano quella tortura elettrica, prolungando la sua agonia estatica ben oltre i limiti di ciò che credeva possibile sopportare.

Era un orgasmo mostruoso nella sua intensità e nella sua durata – un territorio di piacere inesplorato dove il confine tra estasi e sofferenza svaniva completamente.

Poi, gradualmente, quelle dita rallentarono la loro danza spietata, e l’orgasmo iniziò a ritirarsi, lasciandola vuota, tremante, devastata da una soddisfazione che la riduceva a pura carne pulsante.

Roberta sentiva il corpo scosso da fremiti residui, piccole onde sismiche che attraversavano i suoi muscoli come singhiozzi. Una strana ironia biologica: il corpo che risponde al massimo piacere con gli stessi tremori della disperazione.

Scivolò tra le braccia di Dago, accoccolandosi contro il suo petto. Percepiva che anche lui aveva attraversato qualcosa di unico, di trasformativo. Lo leggeva nei segnali silenziosi: il suo respiro, il battito cardiaco sotto il suo orecchio, il modo in cui la stringeva — non solo tenendola, ma contenendola, prendendosi cura di lei.

Mentre la sua mente galleggiava ancora in quella nebbia post-estatica, una sensazione primordiale iniziò a reclamare attenzione, ancorandola bruscamente alla realtà fisica.

“Dago…” mormorò, la voce ancora instabile, “o mi porti a mangiare o potrei finire per mangiare te… sto morendo di fame.”

Un sorriso attraversò il volto di lui – divertito dalla semplicità della richiesta dopo l’intensità di quanto appena vissuto.

“Ti porto dove vuoi,” rispose con voce roca, “basta che tu mi prometta che stanotte resterai con me.”

La proposta, semplice ma carica di significato, era il primo piccolo ponte lanciato verso un possibile futuro condiviso.

La negoziazione, semplice nella sua formulazione, conteneva universi di significato implicito. Non era solo una richiesta pratica, ma una domanda sul futuro immediato, un tentativo di estendere questa parentesi temporale appena aperta, di prolungare la bolla di intimità che avevano creato. Era, a suo modo, una prima timida rivendicazione sul tempo condiviso, un piccolo ancoraggio lanciato verso possibilità future.