
“Hai bisogno di un invito ufficiale per entrare?”
La voce di Dago la colpì come uno schiaffo gentile da dentro l’appartamento. Presente. Reale. Calda come e rigenerante come una tisana d’inverno.
Il corpo di Giulia rispose prima della mente. Un passo oltre la soglia, poi un altro. Il suono della porta che si chiudeva alle sue spalle risuonò nelle ossa, non un semplice click metallico, ma il sigillo di un patto che aveva iniziato a firmare settimane prima, messaggio dopo messaggio, concessione dopo concessione.
L’aria cambiò densità. Fuori c’era la città, con i suoi rumori di traffico e vite normali. Dentro, il palo santo bruciava lento, trasformando l’aria in qualcosa di più pesante, più pericoloso.
I tacchi, quei maledetti tacchi dodici che lui aveva scelto, che le aveva fatto indossare come un marchio di proprietà prima ancora di toccarla, scandivano sul parquet una processione che aveva il sapore di una resa. Non camminava verso di lui. Ad ogni passo si allontanava dalla Giulia che compilava fogli Excel, che stirava le camicie di Marco, che fingeva orgasmi educati il sabato sera.
Il corridoio si srotolava davanti a lei come una gola. Le candele non illuminavano: rivelavano. Ombre che danzavano sulle pareti come spettatori di un rito antico. L’odore dell’incenso si mescolava con qualcosa di più primitivo, il suo stesso odore, quello di femmina in calore che aveva cercato di lavare via sotto la doccia prima di uscire di casa, ma che ora rifioriva sulla pelle come una confessione.
Il corridoio si apriva in un grande salone dove la luce delle candele disegnava geometrie impossibili sul soffitto. E poi lo vide. Non l’uomo delle foto di Telegram. Non la voce che l’aveva fatta venire con le parole. Ma lui, nella sua totalità fisica che contraddiceva ogni fantasia e allo stesso tempo le superava tutte.
Era appoggiato al tavolo, quel tavolo massiccio che dominava la stanza come un altare profano, con la naturalezza di chi possiede lo spazio non per diritto ma per presenza. I jeans aderivano quanto bastava per suggerire senza svelare. La camicia bianca, semplice ma elegante, aperta di due bottoni. Niente di studiato. Tutto deliberato.
La luce delle candele gli scavava il viso, evidenziando delle piccole rughe. I capelli brizzolati tagliati corti parlavano di un uomo che non nascondeva il tempo ma lo indossava come un’arma. E quella pancetta, Cristo, quella pancetta che avrebbe dovuto sminuirlo e invece lo rendeva più reale, più pericoloso. Un predatore che non aveva bisogno di addominali scolpiti perché sapeva esattamente dove mordere.
C’era qualcosa di particolare nella sua noncuranza da farla apparire studiata. Le mani riposavano sui fianchi con quella sicurezza di chi ha vissuto tante esperienze e in qualche modo ne è sempre uscito vivo, arricchito. Non era attraente nel modo convenzionale – Marco era più bello, oggettivamente. Ma Marco non aveva mai abitato il proprio corpo come quest’uomo abitava il suo: ogni gesto calibrato per occupare esattamente lo spazio necessario, né più né meno.
Giulia ebbe l’impressione di avere capito il tipo: uno di quelli che aveva imparato a trasformare i fallimenti che altri avrebbero nascosto in potere di seduzione. Era il genere di uomo che le madri adorano, perché appaiono premurosi, sicuri solidi, senza sapere quanto possono essere pericolosi per le loro figlie.
Ma erano gli occhi a inchiodarla. Verdi e marroni, cangianti, che la studiavano come si studia un testo in una lingua straniera che stai iniziando a decifrare. Non la guardava come Marco, con affetto distratto. La sezionava con lo sguardo, catalogando ogni microespressione, ogni respiro trattenuto. Era terrificante essere vista così. Eppure, così stupendo.
Teneva due tazze fumanti nelle mani. Un gesto così domestico da risultare osceno in quel contesto. Come offrire un tè prima di un’esecuzione.
Giulia deglutì. La gola secca. La figa poteva pensare quella parola ora, in questo spazio sospeso, già bagnata. Era arrivata. E lui lo sapeva.
“Pensavo avresti esitato di più sulla soglia.” La sua voce aveva quella qualità di chi constata fatti già scritti. Porse la tazza. “Zenzero e cardamomo. Per scaldarti… prima.”
Prima di cosa? La domanda le morì in gola mentre accettava la tazza, consapevole che le sue dita tremavano abbastanza da tradirla.
Dago non poteva fare a meno di osservare come le cose che aveva scelto per lei le stessero perfettamente, sia per la taglia che per il colore.
Giulia prese la tazza, consapevole di come le sue dita tremassero leggermente. L’aroma di zenzero e cardamomo le solleticò le narici. “No Signore, sorprendentemente scorrevole,” rispose, la voce più roca di quanto avrebbe voluto. Mentre portava la tazza alle labbra, osservava la stanza, assorbendo ogni dettaglio. Fu allora che lo vide.
Le gambe di Giulia si mossero verso il tavolo degli strumenti come attratte da un magnete invisibile. La sua mente catalogava metodicamente ogni oggetto. Dimensioni, materiali, possibili usi, in un disperato tentativo di mantenere il controllo, mentre il suo corpo tradiva ogni pretesa di distacco. Il respiro si era fatto più corto, i capezzoli premevano contro il pizzo del reggiseno che lui aveva scelto, l’umidità tra le cosce aumentava ad ogni passo.
Su quel tavolo c’era una storia di piacere ancora da scrivere. Le sue dita sfiorarono una corda di juta, ruvida contro la pelle sensibile. La mente le suggeriva nodi e schemi di legatura che aveva studiato online, ma il suo corpo immaginava già la sensazione di quella fibra naturale che le mordeva la pelle, che la immobilizzava, che la rendeva oggetto di piacere. Un brivido le attraversò la schiena.
Sentì Dago muoversi dietro di lei prima ancora di percepirne il calore. La sua presenza era come un campo magnetico che le faceva rizzare i peli sulla nuca. “Vedo che hai notato il mio… kit di lavoro.” Le sue parole sussurrate così vicina all’orecchio, le fecero contrarre involontariamente i muscoli interni. “Non preoccuparti, per questa volta ti farò scegliere gli oggetti che vorrai che usi su di te, io mi terrò il come e quanto.” Il contrasto tra il tono quasi professionale e il sottotesto erotico di quelle parole le fece trattenere il respiro.
Dago bevve un sorso di tisana, i suoi occhi che non abbandonavano mai quelli di Giulia riflessi nello specchio sulla parete – non le aveva permesso di distogliere lo sguardo nemmeno per un istante. “Ma credo che sia fondamentale che prima di tutto, prima di iniziare, concordiamo le regole di…” La pausa studiata le fece contrarre lo stomaco. “…di questa sessione…”
La parola ‘sessione’ risuonò nella stanza come il rintocco di una campana che annunciava l’inizio di un rituale. Giulia sentì le ginocchia cedere leggermente, grata della presenza del tavolo a cui appoggiarsi. La parte razionale del suo cervello continuava a ripeterle che erano solo oggetti inanimati su un tavolo, ma il suo corpo sapeva la verità: erano chiavi che avrebbero aperto porte che non sapeva nemmeno di avere.
“È per la tua sicurezza, prima di tutto!” La voce era calma e rassicurante, avvolgente, se Giulia avesse chiuso le palpebre probabilmente sarebbe bastata quella a farle avere un primo orgasmo.
“Le regole.” Non era una domanda. Posò la tazza con deliberata lentezza. “Due parole che devi scegliere ora. Una per fermarmi un secondo. L’altra per farmi smettere del tutto.”
Il modo in cui disse ‘smettere’ – come se gli costasse anche solo pronunciarlo – le fece contrarre qualcosa nel basso ventre.
“Zenzero per sospendere,” disse Giulia, la voce che grattava. “Wasabi se… se devo scappare.”
“Se devi scappare.” Ripeté le parole assaporandole.
“Non succederà. Ma è bello che tu creda di volerlo. Bene, ora passiamo al resto … “
Giulia aveva tirato fuori la famosa lista che il mentore le aveva fatto scrivere e il confronto sui limiti venne risolto piuttosto semplicemente.
“Quindi, per concludere questo piacevole confronto, ora potrai scegliere almeno otto oggetti, ma se vuoi di più, che io userò per masturbarti, o stimolarti, per farti assaggiare parte di questo mondo. Io ne sceglierò due.” Dago non smetteva di osservare ogni minima variazione di Giulia, la postura del corpo, come si torturava le mani, come spostava il peso da un piede all’altro. Giulia lo osservava con due occhi grandi come quelli dei personaggi dei manga giapponesi, senza fiatare, al massimo annuendo.
“Inoltre ho bisogno di sapere a che ora devi ripartire da qui, in modo da poter gestire in maniera appropriata il tempo e non farti rischiare di arrivare a casa tardi.”
Quel riferimento a casa, all’altra vita, l’altra dimensione la risveglio per qualche istante da quella piacevole trance.
“Devo essere a casa per l’ora di cena, Signore, ho fatto in modo che avessimo tutto il pomeriggio – poi con un tono diverso quasi per la vergogna aggiunse – tutto il tempo che … ci serve” le ultime due parole sussurrate con un filo di voce, il capo abbassato, più per nascondere il rossore che quel pensiero le aveva provocato che per deferenza.
Dago prese il telefono e velocemente impostò un paio di allarmi per sicurezza. Poi, già che aveva il telefono in mano fece partire una playlist di musica ambient che creava la giusta ambientazione.
“Un ultima cosa: da quando decidiamo che la sessione è partita, io ordino, tu esegui – la voce aveva cambiato leggermente tono, più decisa – ovviamente le mie richieste saranno tutte all’interno delle regole che abbiamo deciso poco fa, altrimenti sei autorizzata a urlare zenzero.” La voce era tornata suadente e le labbra avevano preso la forma di un accennato sorriso.
Giulia annuì deglutendo mentre la sua testa iniziava a cercare di immaginare quali ordini lui le avrebbe potuto impartire, e quel dubbio, quella piccola paura, non fece altro che aumentare la quantità di umidità nelle sue mutande.
Dago le prese la mano e con la mano libera che scorreva sopra alla parata di oggetti disse “Quindi, quali oggetti sarebbero di tuo… gradimento per questo … nostro incontro” riuscì a evitare di pronunciare la parola ‘primo’ per non aggiungere pressione a Giulia con il fatto che ce ne sarebbero potuti essere altri. “Se non sai cosa è e a cosa serve, chiedi pure…”
Le dita di Giulia scivolarono sugli strumenti come su territorio proibito. Il plug anale le bruciò nel palmo mentre sussurrava la sua confessione: “Non ho mai… Marco non ha mai…” Un rossore le invase le guance. Ogni oggetto scelto era una porta che si spalancava su stanze buie di sé, su fame che aveva seppellito sotto anni di perbenismo. I dildi promettevano riempimenti che andavano oltre la meccanica coniugale.
Il plug anale. Si impose di respirare normalmente mentre, per non fare la figura della paurosa, sceglieva la seconda misura. Lo prese tra le dita, studiandone la forma conica con un finto distacco tradito dal tremore della sua voce. Il silicone era liscio, quasi caldo, non freddo e impersonale come l’acciaio che aveva toccato prima. “Non ho mai…” le parole uscirono balbettando. “Marco non ha mai…” Un rossore le colorò le guance mentre raccontava la sua verginità anale. Dago annuì comprensivo, ma lei colse un lampo nei suoi occhi, un bagliore di predatore che le fece contrarre involontariamente i muscoli dello sfintere. Lo stesso sguardo che aveva immaginato attraverso i messaggi Telegram quando le aveva suggerito di iniziare a esplorare quella zona con un dito mentre si faceva la doccia, o di usare il manico di un pennello per il trucco per prepararsi. Suggerimenti che lei aveva accolto con timida curiosità ma che aveva eseguito con estrema cautela, fermandosi sempre al primo accenno di fastidio.
I dildi giacevano come promesse graduate di piacere. Ne scelse due con gesti rapidi, uno familiare, l’altro che sfidava i suoi limiti. Il più grande le pesava nel palmo come una confessione non detta: quanto poteva contenere, quanto osava desiderare. “L’altra via è ancora… intatta,” mormorò, e quelle parole le accesero il sangue più di qualsiasi carezza.
Un frustino tipo quelli da cavallerizza catturò la sua espressione. Non lo afferrò subito. Lo studiò, immaginando il sibilo nell’aria, il morso sulla pelle. Il respiro si fece più corto, irregolare. Accanto, una paletta di cuoio nero prometteva sensazioni più diffuse, più profonde. Le scelse entrambi, la mano che non tremava più. La decisione che cancellava l’esitazione. Poi le candele colorate: il ricordo innocente di quando giocava con la cera delle candele dei nonni si trasformava in fantasia proibita, in promessa di sensazioni mai provate.
Le pupille si dilatarono visibilmente alla vista della ‘magic wand’. Il mitico vibratore per “viso e collo” che aveva conquistato ben altri territori. Un oggetto innocente trasformato dal desiderio collettivo. La voce di una slave in chat le risuonò nella mente: “Tutte le donne ne dovrebbero avere una, non ci sarebbero più isteriche in giro…”. Il sorriso malizioso di Dago le fece capire che lui sapeva esattamente cosa le stava passando per la testa.
I collari erano disposti quasi come oggetti sacri, uno vicino all’altro. Fogge diverse, materiali che promettevano sottomissioni differenti. Il metallo catturò il suo sguardo, freddo, definitivo, senza le ambiguità. Lo sollevò con mani che non tremavano più.
Il peso sorprese le sue dita. Non era il peso del metallo, era la gravità di una scelta che avrebbe rotto una vita di collari invisibili. Aveva portato quello del matrimonio per vent’anni, una catena dorata di aspettative sociali che le stringeva la gola ogni mattina quando si svegliava accanto a Marco. Il collare del lavoro, tessuto di protocolli e sorrisi educati, che l’aveva soffocata dietro scrivanie anonime. Il guinzaglio di sua madre, fatto di sensi di colpa cattolici e “cosa dirà la gente”, che ancora le tirava il collo ogni volta che osava desiderare qualcosa di più del grigio matrimoniale.
Ma questo, questo era diverso. Era il primo collare che sceglieva lei. Il primo che prometteva, a modo suo, una libertà.
Guardò Dago e per la prima volta in vita sua vide qualcuno che la stava davvero guardando. Non la moglie, non la figlia, non la contabile. Lei.
“Questo…” La voce le uscì incerta, come una ragazzina che chiede il permesso per qualcosa di proibito. Teneva il collare con entrambe le mani, pesante come una decisione. Si voltò verso di lui, il rossore che le saliva dal petto. Le parole giuste non esistevano per quello che sentiva bollire dentro.
“Vorrei che me lo mettesse lei.” Le parole le scivolarono fuori, inciampando una sull’altra. Non erano le parole di una donna sicura di sé, ma di qualcuna che stava facendo i primi passi su ghiaccio sottile.
Dago restò a guardarla per qualche secondo, poi si alzò avvicinandosi a Giulia quasi in modo solenne. Prese il collare dalle sue mani, lo raccolse, come si raccoglie qualcosa di delicato, di prezioso.
“Sai cosa stai chiedendo?” La sua voce aveva quella qualità di chi legge anime come libri aperti.
“Di essere sua.” Le parole uscirono prima che potesse censurarle, crude come una ammissione di colpa, pure come una professione di fede. “Per oggi. Secondo le regole. Ma veramente sua. Non come sono stata di Marco – per contratto, per convenzione. Sua perché lo scelgo, perché lo voglio, perché ne ho fame.”
Il click del collare che si chiudeva fu il suono più pornografico che avesse mai sentito. Un clic metallico che riscriveva la sua biografia in una sola nota.
L’ultimo oggetto catturò la sua attenzione. Una rotella che le ricordava quella che sua nonna usava per i ravioli, ma questa aveva punte sottili che promettevano sensazioni ben diverse dalla pasta fresca domenicale. ‘La rotella di Wartenberg,’ bisbigliò Dago alle sue spalle. La sua voce calda e vicina all’orecchio come una carezza sonora.
Lui osservava. Catalogava. Memorizzava. Non era solo la scelta degli oggetti che lo interessava, ma il modo in cui li sceglieva e, soprattutto, quelli che evitava di guardare, come la frusta appesa al muro, o le pinze più aggressive. Ogni sua scelta, ogni sua occhiata sfuggente raccontava una storia di desideri e limiti che lui assorbiva con attenzione quasi scientifica. Ogni tremito delle sue mani, ogni respiro trattenuto veniva registrato e archiviato per uso futuro. Le sue scelte parlavano più di quanto lei stessa realizzasse: non solo dei suoi desideri espliciti, ma delle sfumature più sottili delle sue fantasie, dei confini che voleva esplorare, dei limiti che voleva sfidare.
“Con questo sei arrivata a otto, vuoi aggiungere altro?”
Giulia lo guardò quasi spossata dallo sforzo di scegliere. Dentro di sé udiva una voce che urlava “Chiedigli, supplicalo di usarli tutti, cazzo!!”, mentre un’altra parte di lei, quella che per anni aveva tenuto tutto sotto controllo, cercava disperatamente di mantenere un’apparenza di compostezza. Le sue dita formicolavano dal desiderio di toccare altri oggetti sul tavolo, di ammettere altri desideri, ma sapeva esattamente cosa stesse facendo lui: stava ponendo e rispettando dei limiti.
Ricordò il primo “no” che aveva digitato su Telegram, le dita che esitavano sulla tastiera come se quella parola fosse una granata. Aveva aspettato l’esplosione, il ricatto sottile che conosceva negli uomini. Invece lui aveva risposto: “Grazie per la tua onestà”. Quattro parole che avevano costruito tutto quello che stava succedendo ora.
La sua mente tornò a una di quelle telefonate che facevano la sera, mentre lei cucinava e aspettava che il marito rientrasse. Il rituale era sempre lo stesso: lei metteva gli auricolari mentre preparava la cena. La voce di lui la accompagnava tra i fornelli, trasformando gesti quotidiani in un gioco di seduzione. Quella sera in particolare, aveva lasciato cadere un cucchiaio quando lui le aveva chiesto cosa stesse indossando. Il rumore aveva fatto sobbalzare il gatto, ma lei aveva riso, una risata liberatoria, che aveva fatto sorridere anche lui al telefono.
Lui le aveva raccontato quanto adorasse il controllo del piacere, e a colpirla, era stato il tono appassionato in cui si poteva percepire quanto solo a ricordare alcuni momenti provasse un sottile piacere ancora adesso, quello di avere in pugno il piacere di un’altra persona e di farle superare confini che lei non aveva immaginato, ma lui riteneva, credeva, soprattutto credeva, lei avrebbe potuto superare.
“Non devi fare nulla che non ti senta pronta a fare”, le aveva detto quella sera, mentre lei tagliava le verdure con mani tremanti. “Ma quando sarai pronta, sarò qui per guidarti.” Le aveva spiegato come amava tenere in astinenza la sua sottomessa mentre erano lontani. Non era una privazione fine a sé stessa – era un’arte, un gioco di equilibri. Le ordinava di trovare dei momenti per masturbarsi in qualche modo, possibilmente bizzarro, arrivando il più vicino possibile all’orgasmo, senza mai godere. Una tortura dolce che ora, guardando gli oggetti sul tavolo, assumeva un significato nuovo, più profondo. Poi quando, dopo ore o giorni, lui l’aveva a sua disposizione, era suo piacere e divertimento prendersi cura degli orgasmi della sottomessa, arrivando ad un numero di orgasmi che lei non riteneva possibile, almeno fino ad allora.
Le mani le tremavano leggermente mentre resisteva all’impulso di allungarsi verso altri oggetti. Si morse l’interno del labbro, un gesto inconscio che non sfuggì a Dago che la osservava con attenzione. “Mi vanno bene questi, grazie Signore,” riuscì a dire, la voce un bisbiglio roco. Poi, trovando un po’ di quella audacia che lui sembrava risvegliare in lei, aggiunse con un tono che tradiva la sua eccitazione: “Tanto Lei ne deve scegliere altri due…”
“Sarei tentato di farti una sorpresa ma, rispettoso dei nostri accordi, voglio mostrarteli…” Con la sua solita calma, facendo finta di essere indeciso, si accarezzava la barba, un gesto che notava per la prima volta in lui, cercando di immaginare quelle mani, quel gesto, ripetuto sulla sua pelle.
La scelta fu rapida. Un dildo dalla forma particolare catturò il suo sguardo – un tentacolo multicolore che sembrava uscito da uno dei manga erotici che aveva scoperto nelle sue notti insonni. La superficie iridescente catturava la luce delle candele, quasi animandolo. I sottili rilievi che lo percorrevano dalla base alla punta le provocarono brividi lungo la schiena, immaginando sensazioni mai provate.
La seconda scelta la lasciò perplessa. Un oggetto dalla forma vagamente medicale, che andava a corrente. “È un innocuo apparecchio che usano le estetiste,” spiegò Dago, la voce come miele caldo. “Lo chiamano alta frequenza, un leggero passaggio di corrente sulla pelle, un formicolio…” Fece una pausa studiata. “Nel loro caso, serve per stimolare la circolazione. Nel nostro…” Il suo sorriso parlava di usi ben diversi da quelli dell’estetista.
L’idea di quella corrente che avrebbe percorso la sua pelle, controllata da Dago, le fece accelerare il respiro. Era il modo in cui lui trasformava qualcosa di innocuo in uno strumento di piacere a eccitarla – l’ennesima dimostrazione del suo potere di rivelare l’erotismo nascosto nell’ordinario.
Con pochi gesti sicuri, Dago liberò il tavolo da tutto ciò che non serviva, lasciando solo gli oggetti scelti. Dispose con cura metodica le corde di juta, allineandole per lunghezza – ogni fascio di corda disposto con la precisione di un maestro prepara il suo kit. Il contrasto tra la ruvidezza naturale della juta e la lucidità degli altri oggetti creava una composizione che parlava di promesse imminenti.
Poi vide Dago aggiungere delle cose. “Scusi ma…” Giulia, più spaventata dal fatto che lui poteva rompere gli accordi ancora prima di cominciare, non riuscì nemmeno a finire la frase.
“Mi sono permesso di aggiungere alcuni oggetti che ritengo fondamentali.” Dago fece una pausa studiata, osservando con calma i nuovi oggetti. “Alcuni ti saranno necessari, altri potrai richiederli se lo desideri.”
Si chinò a prendere il primo oggetto: una benda di seta nera, la superficie opaca che assorbiva la luce delle candele. La fece scorrere tra le dita, mostrandone la morbidezza. “Per quando vorrai abbandonarti completamente alle sensazioni, senza il controllo della vista.”
Accanto aveva posato un morso in cuoio nero con dettagli metallici: un o-ring centrale circondato da morbide imbottiture. “Per trasformare le tue grida in gemiti soffocati, per darti qualcosa su cui serrare i denti.”
Infine, sollevò una bottiglia di gel trasparente dalla forma elegante. “E del lubrificante siliconico di prima qualità.” Passando poi ad un tono complice. “Per permetterti di accogliere nuove… esperienze con il giusto comfort.”
“Come ti dicevo prima, questi oggetti sono qui solo per tua scelta. Nulla che tu non desideri verrà usato.” Dago parlò con voce che era ferma ma rassicurante, mantenendo quel delicato equilibrio tra autorità e cura che l’aveva attratta fin dai loro primi scambi.
Dago posò l’ultima bottiglia di lubrificante accanto agli altri strumenti. Il tavolo ora ospitava una collezione completa di promesse e minacce, ogni oggetto che catturava la luce delle candele come un altare profano pronto per il sacrificio.
“Ora che abbiamo scelto anche gli … strumenti,” disse, e qualcosa nella sua voce cambiò registro, più basso, più possessivo, “iniziamo.”
Quella singola parola – iniziamo – cadde nella stanza come una pietra in uno stagno, creando cerchi concentrici di tensione che raggiunsero Giulia fino al midollo. Era la fine della negoziazione. L’inizio della resa.
Detto questo si girò, e il suo movimento sembrò portare con sé le ombre della stanza. La penombra si aprì come un sipario quando la luce di una lampada a stelo antica si accese, rivelando quello che fino a quel momento era rimasto celato nell’oscurità: uno scranno che era più di un mobile era una dichiarazione di intenti. Alta, austera, rivestita in pelle color cognac scuro, consumata dal tempo in modo tale da conferirle carattere invece che decadenza. Lo schienale si ergeva come quello di un trono medievale, e il piccolo tappeto orientale ai suoi piedi sembrava definire un territorio sacro.
Giulia trattenne il respiro mentre Dago si avvicinava alla poltrona. Ogni suo passo sembrava calibrato, come se stesse eseguendo i movimenti di una danza antico. Si versò dell’altra tisana con gesti misurati. Questo gesto solitario, così diverso dall’accoglienza condivisa di poco prima, segnava sottilmente l’inizio della transizione dei loro ruoli. Solo quando si sedette, la poltrona sembrò trovare il suo scopo. Non era più un semplice oggetto, ma un centro di potere. L’assenza di braccioli, che prima poteva sembrare una mancanza, ora appariva come una scelta deliberata: nulla doveva frapporsi tra lui e ciò che gli apparteneva.
Il silenzio si fece denso mentre lui la fissava, sorseggiando lentamente la sua tisana. La sua postura era quella di un jarl vichingo sul suo seggio: le spalle larghe appoggiate con naturale autorità contro lo schienale alto, le gambe leggermente divaricate in una posizione che parlava di potere contenuto, di forza pronta a scatenarsi. Seduto lì, immobile ma vibrante di energia contenuta, Dago non aveva bisogno di parole per comunicare le sue intenzioni. Una sua occhiata era sufficiente per iniziare a creare quell’atmosfera dove i ruoli si definivano senza bisogno di essere dichiarati.
“Direi che hai avuto sufficiente tempo per rilassarti e ambientarti.” Osservò lentamente gli strumenti allineati sul tavolo, un movimento ipnotico che costrinse anche lei a seguirlo. Giulia deglutì, sentendo la gola improvvisamente secca mentre osservava e accarezzavano quegli oggetti carichi di promesse.
Il silenzio che seguì era totale, come se la stanza fosse stata inghiottita da un buco nero sonoro. Nemmeno le fiamme delle candele osavano crepitare. La voce di Giulia sembrava intrappolata nella sua gola, le sue labbra incapaci di formare parole. Poteva solo annuire, un gesto che conteneva tutto il peso della sua sottomissione volontaria.
“Sei ancora in tempo per voltarti, ripercorrere il corridoio, aprire la porta e tornare a casa.” Riusciva ad essere rassicurante, pur lasciando trapelare un velo di eccitazione, irrequietezza. “Nessuno saprà mai che sei venuta qua, con quali intenzioni, idee o fantasie…”
In quel silenzio assurdamente assordante, Giulia aveva l’impressione di sentire una pendola che segnava pesantemente il tempo con il suo ticchettio – ma era solo il suo cuore che, rallentando, stranamente, batteva con un’intensità che le faceva male al petto. Il mondo intorno a lei sembrava muoversi al rallentatore, come se qualcuno avesse versato della resina densa sulla realtà, dandole il tempo di percepire ogni sensazione con una nitidezza quasi dolorosa.
La sua mente oscillava tra due possibilità, ognuna carica di conseguenze. Girarsi significava tornare alla sicurezza della routine: le cene silenziose con Marco, il sesso meccanico del sabato sera, i fine settimana riempiti di pulizie ossessive per non pensare al vuoto che le divorava l’anima. Ma sapeva che quel grigiore ora sarebbe stato contaminato per sempre dalle scoperte e dalle esperienze vissute negli ultimi mesi. Ogni gesto quotidiano, come preparare il caffè, sistemare i documenti in ufficio, persino guardarsi allo specchio, sarebbe stato accompagnato dal fantasma di ciò che avrebbe potuto essere.
Restare invece… Restare significava abbattere, uno dopo l’altro, ogni muro che aveva costruito in quarant’anni di vita rispettabile. Significava ammettere che sotto la facciata della moglie perfetta, della contabile precisa, si nascondeva una donna che voleva essere legata, dominata, posseduta. Una donna che sognava di essere usata come un oggetto di piacere e che, paradossalmente, in quella oggettificazione trovava una libertà che la sua vita ‘normale’ non le aveva mai concesso.
“Oppure…” Dago bevve un altro sorso, forse per mascherare un tremito nella sua voce, “ti slacci il vestito, lo lasci cadere a terra, e fai un passo avanti.” Bevve un’altra volta senza staccare lo sguardo da lei. “Quel gesto significherà che sarai mia, alle condizioni concordate. Che obbedirai a ogni mio ordine all’interno dei nostri limiti, e che solo le parole Zenzero e Wasabi potranno fermarmi.”
Le parole di Dago colpirono qualcosa dentro di che fece muovere le sue mani prima che il cervello potesse interferire. Le sue dita erano incerte mentre cercavano la cerniera del vestito, non per paura ma per l’eccitazione di quello che quel gesto rappresentava: spogliarsi davanti a lui, ad un uomo diverso da suo marito. Avvertiva l’umidità crescere tra le cosce, il suo sesso che pulsava al pensiero di quello che stava per succedere. I capezzoli si erano già induriti sotto il reggiseno, premendo contro il pizzo come a voler sfuggire dalla loro prigione di tessuto.
Il vestito scivolò lungo il suo corpo come una vecchia pelle che si stacca, rivelando sotto uno strato nuovo, più vivo, più sensibile. Come un serpente che abbandona la sua corazza protettiva per emergere più vulnerabile ma anche più potente, Giulia sentiva ogni terminazione nervosa risvegliarsi al contatto con l’aria. Mentre la stoffa si afflosciava ai suoi piedi come una muta vuota, inutile, fece un passo avanti, lasciandosi alle spalle non solo il vestito ma tutto ciò che esso rappresentava. Anni di autocensura, di negazione, di compromessi. Sotto lo sguardo di Dago, le sue curve non erano più difetti da mascherare ma armi di seduzione, un arsenale sensuale che stava scoprendo e che voleva offrirgli.
“Togliti anche il reggiseno e le mutande.” La casualità studiata dell’ordine contrastava violentemente con la sua portata emotiva. Le dita le tremavano mentre lottavano con il gancetto, non per pudore, realizzò, ma per l’eccitazione di quello che quel gesto rappresentava. Con Marco, lo spogliarsi era sempre stato un atto furtivo, nascosto dal buio complice. Ora invece ogni movimento era esposto alla luce calda delle candele, ogni gesto carico di un significato che andava oltre il semplice denudarsi.
Fece un altro passo avanti, lasciando anche l’intimo dietro di lei, ma restando attenta a non calpestare il tappeto che, istintivamente, percepiva come territorio sacro. Il suo corpo nudo rabbrividiva leggermente, non per il freddo ma per l’intensità delle sensazioni che la attraversavano. “Grazie Signore, di aver accettato di trasformare il mio sogno in realtà.” La voce di Giulia era un sussurro eppure, in quella stanza diventò perfettamente e chiaramente udibile.
La risposta di Dago fu solo un’occhiata, ma valeva più di mille parole. C’era tutto: approvazione, desiderio, e la promessa di piaceri che andavano oltre la sua immaginazione. Giulia sentì il suo sesso contrarsi involontariamente sotto quello sguardo, il suo corpo che rispondeva a un linguaggio più antico delle parole. Era come se ogni fibra del suo essere stesse gridando “prendimi”, mentre la sua mente razionale si arrendeva finalmente al desiderio che per troppo tempo aveva represso.
Giulia iniziò ad avvertire i primi scricchioli nella corazza della sua mente razionale. La donna grigia che per anni aveva catalogato spese, controllato budget, fatto la spesa, rassettato casa, mantenuto le apparenze, si arrendeva finalmente al richiamo primordiale della sua natura più profonda. Nello stesso modo iniziava a sentire ogni cellula della sua pelle, del suo corpo, parte integrante del suo organo sessuale.
In attesa di ricevere il prossimo ordine, la sua mente scivolò fuori dal corpo permettendole di osservare la scena: un uomo, sicuro, il corpo teso come un arco, gli occhi da rapace che aspettavano il momento giusto per sferrare l’attacco e impossessarsi della preda. Dall’altra parte una donna che faticava a riconoscere, in piedi su un paio di scarpe con tacchi che mai avrebbe pensato di poter indossare per così tanto tempo, la postura fiera e sottomessa allo stesso tempo – una contraddizione vivente che incarnava perfettamente il paradosso del suo desiderio di sottomissione. Ma soprattutto una cosa notò, prima che la voce di Dago la riportasse lì, nel presente, ai suoi doveri. Quella donna era bellissima.
“Mettiti al centro del tappeto nella posizione Nadu.”
La mente di Layla sfogliò rapidamente le paginette del suo personale manuale del BDSM, formatosi sia dalle chiacchierate e dalla formazione avuta dal mentore, sia dalle chiacchierate fatte con lui. Si portò al centro del tappeto, si inginocchiò, aprì le cosce, consapevole che avrebbe mostrato quanto la sua figa fosse bagnata, anche se lui non l’aveva ancora sfiorata con un dito, appoggiò il sedere sulle caviglie, inarcò la schiena, offrendo i suoi seni che le apparvero più sodi di quanto ricordava. Appoggiò le mani, con i palmi rivolti verso l’alto, sulle cosce e infine raddrizzò la testa avendo cura di guardare in basso, cercando un punto poco davanti.
Lo sentì muoversi, silenzioso, i suoi piedi nudi non facevano rumore. Era tentata di girare la testa, vedere dove sarebbe andato cosa avrebbe fatto ma si impose di non muoversi. Era difficile, restare lì ferma, immobile, inerme ad aspettare qualcosa di sconosciuto. Un tintinnio. Poi improvvisamente lo sentì dietro di lei. Un rumore di metallo, forse un cigolio, poi qualcosa di freddo che le avvolgeva il collo – un cerchio perfetto di acciaio che segnava il confine tra la donna che era stata e quella che stava diventando.
Le dita di Dago chiusero il collare con un click che risuonò nella stanza come una sentenza. Quando parlò, usò un tono basso, autoritario: “Con questo collare, fino alla fine di questa sessione, tu sei mia proprietà. Il tuo corpo, i tuoi orgasmi, il tuo piacere, il tuo dolore mi appartengono. Io deciderò come, io deciderò quando, io deciderò quanti!” Sentì la mano di Dago afferrare con un movimento rapido i suoi capelli raccogliendoli in una coda, tirandoli, facendola sentire sua e sottomessa in un millesimo di istante, obbligandola ad alzare il viso. “Ti è chiaro? Hai capito?” le chiese quasi ringhiando a pochi millimetri dal suo viso.
Giulia non era abituata a queste situazioni, a queste cose, a questo mondo. Era abituata a vivere in un mondo lineare e si ritrovava catapultata in un mondo tempestoso, duale, dove le emozioni non erano mai una ma il bianco e il nero…
Lo guardò spaventata ed eccitata, più eccitata di quello che era trenta secondi prima, meno spaventata di quello che era 30 minuti prima. Le bastò una sillaba per rispondere, e nonostante il tremore che le attraversava il corpo, la sua voce uscì forte e decisa: “Sì!”
Dago fece due passi deliberatamente lenti verso la poltrona, il rumore silenzioso dei suoi piedi nudi sul parquet, faceva accelerare il cuore di Giulia. Si sedette con naturale autorità, le gambe leggermente divaricate, senza perdere mai di vista la sua preda inginocchiata.
“Ti fidi di me?”
Le parole di Dago galleggiarono nell’aria, dense di promesse non dette. Dovette lottare con il suo corpo per evitare rispondesse prima che la mente potesse processare la risposta. Brandelli di memorie, favole d’infanzia, principesse salvate, sogni innocenti, attraversarono la sua mente come lampi fuori posto in quella stanza carica di intenzioni proibite. Ma qui non c’erano principi azzurri né salvezze facili. Solo la sua vulnerabilità nuda e le sue parole che la penetrava più profondamente di qualsiasi carezza fisica.
“Sì!” Disse con un sussurro che tradiva il conflitto tra desiderio e timore, non del dolore, ma della libertà che quel dolore prometteva.
“Ti fidi di me?”
La ripetizione fu come uno schiaffo gentile, un risveglio. La donna rispettabile era svanita, lasciando emergere una creatura che voleva, no, che aveva bisogno di essere posseduta, usata, trasformata. Il suo “Sì” questa volta venne dalle viscere, caldo e umido come il suo sesso che pulsava di aspettativa.
“So cosa hai chiesto,” la voce calma, controllata, “ma per portarti dove vuoi arrivare, devo prima preparare il tuo corpo, la tua mente.”
Il silenzio che seguì fu pieno di significati non detti. I loro sguardi s’intrecciarono nell’aria carica. Lei preda consapevole, lui predatore paziente. La caccia era iniziata molto prima, nei messaggi notturni, nelle confessioni bisbigliate al telefono. Ora era solo il momento della resa.
“Vieni qui!” Due parole. Un comando che non ammetteva risposte diverse dall’obbedienza. Il suo corpo si mosse come manovrato da fili invisibili. Era esposta, vulnerabile e, paradossalmente, più potente che mai. Ogni passo verso di lui era un passo verso una nuova versione di sé, una variazione che non aveva paura di volere, di desiderare, di essere presa.
Lo sguardo di Dago la divorava, centimetro dopo centimetro. La sua pelle nuda bruciava sotto quell’ispezione meticolosa. Si muoveva lentamente, in parte per gestire l’intensità delle emozioni che la attraversavano come scariche elettriche, in parte per assaporare ogni momento di quella metamorfosi.
Raggiunse la posizione indicata alla destra della poltrona, miracolosamente stabile sui tacchi mentre ogni fibra del suo essere vibrava d’anticipazione.
“Sdraiati sulle mie gambe.”
Le parole la colpirono come una doccia fredda sulla rispettabilità faticosamente costruita. Con tutti i suoi limiti era e si sentiva una donna adulta. La moglie perfetta che stirava camicie e preparava cene, la contabile affidabile che non faceva errori.
E ora le veniva chiesto di piegarsi come una bambina cattiva. Il rossore le esplose sulle guance, non per la vergogna di quello che stava per fare, ma per la scoperta che lo voleva. Che aveva fame di quella regressione, di essere finalmente piccola nelle mani di qualcuno che decideva per lei. Dopo vent’anni di vita in sordina, di essere sempre quella che si adeguava, che non dava fastidio, che spariva negli angoli delle stanze.
L’infantilizzazione la bruciava e la eccitava insieme. Era l’ultima umiliazione e la prima libertà: smettere di essere la Giulia invisibile per diventare qualcosa di completamente nuovo nelle mani di quest’uomo.
Iniziò a piegarsi in avanti, le mani di Dago la afferrò con decisione possessiva, guidandola nella posizione che aveva sognato e temuto in egual misura.
Il suo corpo fu costretto a sdraiarsi sulle sue cosce, il ventre premuto contro la stoffa ruvida dei jeans. Il denim graffiava la pelle del ventre come carta vetrata sui nervi, ogni fibra del tessuto che si imprimeva sulla carne in un alfabeto di dominazione. I seni pendevano liberi nel vuoto, pesanti e vulnerabili, oscillando a ogni respiro come pendoli impazziti. La testa più bassa dei fianchi, in una posizione di vulnerabilità totale che capovolgeva il mondo e il suo posto in esso.
La prima coppia di schiaffi esplose sulla sua carne come un fulmine a ciel sereno. Non fu il dolore a sorprenderla, ma l’eco, il suono che rimbalzò sulle pareti e tornò alle sue orecchie come la firma sonora di una nuova identità. Il colpo si irradiò dalle natiche verso l’interno, onde concentriche di calore che attraversarono la pelle, i muscoli, fino a toccare qualcosa di più profondo.
La carne reagì come materia viva, prima la contrazione istintiva, poi l’arrossamento che saliva dalla superficie verso gli strati più nascosti. Ogni terminazione nervosa si accese contemporaneamente, creando una mappa di sensazioni che non sapeva di possedere. Era cartografia del piacere tracciata a schiaffi, ogni colpo un punto di riferimento in un territorio mai esplorato.
La seconda sequenza la trovò più preparata, ma non meno sorpresa. La pelle, già sensibilizzata, amplificava tutto: l’impatto secco, l’irradiazione del calore. I glutei vibravano come tamburi, e lei poteva sentire il ritmo batterle dentro, sincrono con il cuore ma più primitivo, più urgente.
Ogni schiaffo successivo rivelava una nuova parte di lei. Le natiche si arrossavano e si scaldavano, trasformandosi in due soli gemelli che irraggiavano calore verso il centro di lei. La pelle tesa vibrava anche dopo l’impatto, come corde di chitarra pizzicate da mani esperte.
Il dolore si trasformava in qualcos’altro, non scompariva, ma mutava, diventava elettricità pura che correva lungo la spina dorsale e si scaricava tra le cosce. Le gambe le tremavano non per lo sforzo, ma per l’intensità di sensazioni che il cervello faticava a catalogare. Era troppo per essere dolore, troppo acuto per essere solo piacere.
La sua figa pulsava, reagendo a ogni colpo come se le sculacciate fossero carezze dirette. Il corpo aveva stabilito connessioni che la mente non riusciva a decifrare – un circuito di nervi che cortocircuitavano piacere e dolore in una miscela esplosiva che le faceva girare la testa.
Sdraiata così, vulnerabile e offerta, Giulia scopriva di avere un corpo che non conosceva. Non quello che si lavava sotto la doccia o che vestiva ogni mattina, ma un groviglio di terminazioni nervose che aspettavano di essere svegliate. Ogni schiaffo era un risveglio, ogni bruciore una rivelazione della donna che aveva sempre portato dentro senza saperlo.
La mano che le avvolse il collo fu una rivelazione scioccante. La presa era ferma ma controllata, una dichiarazione di proprietà che le mandò brividi ovunque. Non la stava soffocando, eppure quella pressione costante le ricordava ad ogni respiro chi avesse il controllo. Era terrificante ed eccitante allo stesso tempo, una contraddizione che le fece girare la testa.
Le natiche bruciavano, ogni punto colpito un piccolo sole di calore che pulsava al ritmo del suo cuore impazzito. Il suo corpo offerto sulle gambe di quell’uomo. I seni che sfioravano le sue cosce ad ogni respiro affannoso. Altri due schiaffi sapienti, ognuno su una chiappa diversa, nuovamente in punti vergini, ancora più intensi. Il suo corpo era diventato una mappa di sensazioni, ogni colpo un nuovo territorio conquistato.
Rimase sospesa nell’attesa della prossima sequenza, ma non arrivò. Il suo corpo oscillava in un equilibrio precario tra le sue ginocchia e la mano sul collo. Dolore e piacere. Paura ed eccitazione. Una danza di opposti che si nutrivano a vicenda. E mentre elaborava queste sensazioni, arrivò qualcosa di nuovo.
La mano che le afferrò la figa non chiedeva permesso – prendeva possesso di ciò che già sapeva appartenerle. Non c’era gentilezza in quel gesto, solo dominazione pura che le fece spalancare le cosce in un’offerta inconscia di sottomissione totale. Un gemito di resa uscì dalla sua gola mentre il suo sesso bagnato accoglieva quelle dita invasive.
Faticava a respirare, sopraffatta dalle sensazioni che la assalivano. La mano iniziò a muoversi, esplorare, conquistare, dal clitoride gonfio fino all’ano contratto, spalmando i suoi umori ovunque. Quando pensò di aver capito il ritmo, due dita la penetrarono con decisione, affondando nella sua vagina bollente per poi ritirarsi e rientrare con angolazioni diverse.
L’eccitazione cresceva mentre quelle dita le rivelavano una geografia del piacere che non conosceva. Zone che nessuno – nemmeno lei nelle sue esplorazioni solitarie – aveva mai trovato rispondevano al tocco esperto di Dago. Il suo cervello, inondato di dopamina e ossitocina, fluttuava in uno spazio tra realtà e delirio quando le dita scivolarono fuori, lasciandola vuota e frustrata.
Una nuova serie di sculacciate arrivò senza preavviso. Questa volta la sequenza era casuale, imprevedibile, negandole persino la sicurezza dell’anticipazione. Le natiche si arrossavano sempre di più, il dolore le faceva bruciare gli occhi e proprio quando pensava di non poter sopportare oltre, le dita tornarono a riempirla.
Questa volta erano affamate, possessive, raggiungendo la cervice con spinte decise prima di piegarsi e trovare quel punto dietro l’osso pubico che le fece vedere stelle. Il ghigno di Dago fu udibile mentre indice e medio continuavano a massaggiare quel punto magico e il pollice iniziava a torturare il clitoride con movimenti circolari. Il piacere si moltiplicò, intensificandosi fino a diventare quasi insopportabile.
Ancora una volta le dita si ritrassero, lasciandola sull’orlo dell’orgasmo, e le sculacciate ripresero. Le natiche generose vibravano sotto i colpi, arrossandosi, cantando una sinfonia di dolore e piacere. Aveva perso il conto dei colpi, persa in una nebbia di sensazioni che le avevano fatto perdere il senso di sé. Si vide dall’esterno, sdraiata e offerta, e quell’immagine invece di mortificarla intensificò il suo piacere.
La visione fu interrotta dalle dita che tornavano a invadere il suo sesso. Affondavano e ruotavano come se volessero svuotarla, per poi ritirarsi e… Quando il suo corpo si contrasse per istinto, un dito era già entrato nel suo culo, usando i suoi umori come lubrificante naturale. Lo sfintere si strinse attorno all’intruso ma non poteva espellerlo, e lui lo muoveva millimetricamente, guadagnando terreno ad ogni spinta. “Meno male che doveva essere vergine e stretto…” la voce ironica commentò quanto facilmente l’aveva sodomizzata.
Una spinta decisa e il dito medio la penetrò completamente. Un lampo di dolore si trasformò in un’irradiazione di piacere inaspettato mentre la sua educazione bigotta si sgretolava come una maschera troppo a lungo indossata. Sotto quella facciata di rispettabilità emergeva una creatura che non sapeva di essere: selvaggia, affamata, autentica.
Aprì gli occhi e vide – o immaginò di vedere – sua madre, vestita di nero, che la osservava con disgusto, la borsetta stretta tra le mani come uno scudo. La guardava e la giudicava: sua figlia, nuda come una puttana, che offriva il suo corpo a uno sconosciuto, che si lasciava mettere un dito nel culo e godeva. La guardò e le sorrise, mentre anni di “non si fa”, “non si deve”, “cosa penserebbe la gente” si dissolvevano come nebbia al sole insieme all’immagine materna.
Il pollice le invase la bocca mentre altre dita si univano a quelle che già la penetravano. Bocca, figa, culo – posseduta completamente dall’uomo che incontrava per la prima volta. In quella resa trovava un potere che non aveva mai immaginato possibile. Ogni ordine eseguito era una scelta consapevole, ogni atto di sottomissione una dichiarazione di libertà. Non era più prigioniera delle aspettative altrui, ora sceglieva consapevolmente a chi e come arrendersi.
Quel pensiero la portò sull’orlo dell’orgasmo, ma la voce di Dago, tagliente come una lama, la fermò: “Non ti azzardare a godere senza il mio permesso!”
Giulia era abituata a gesti frettolosi. Marco o si dedicava velocemente al suo piacere oppure cercava di farla godere masturbandola frettolosamente e goffamente, come un bambino che cerca di aprire un regalo con troppa foga. Quest’uomo invece, sembrava non avere fretta, sembrava ascoltarla con tutti e cinque i sensi. Ogni suo fremito, ogni respiro spezzato, ogni goccia di umidità era un messaggio che lui sapeva decifrare con maestria diabolica. E lei era lì, abbandonata sulle sue ginocchia, nella posizione OTK (Over The Knee) nuda, con le chiappe arrossate e calde che pulsavano come un secondo cuore, gli orifizi che si stringevano affamati attorno alle sue dita invasive. Cosa avrebbe detto sua madre, cosa avrebbe detto suo padre, ma soprattutto, cosa avrebbe detto Marco? La sua mente lo immaginò in un angolo della stanza, nella classica posa del chuckold, il marito costretto a guardare mentre la sua rispettabile mogliettina veniva fatta godere da un altro uomo. L’idea di Marco che osservava impotente mentre lei si trasformava in una creatura di puro piacere le mandò una scarica di eccitazione lungo la spina dorsale, facendole bagnare ancora di più.
Dago aveva proseguito quel gioco piacevolmente crudele per almeno altri quindici minuti, alternando la penetrazione delle dita a sculacciate sempre più forti e decise. Le sue dita allargavano ed esploravano le sue aperture senza pietà, strappandole gemiti che non riconosceva come suoi. Ogni colpo sulle natiche era calibrato per farla sussultare, creando un circolo vizioso di dolore e piacere che la faceva impazzire. Poi si era fermato, e il contrasto fu scioccante. Quelle mani che fino a qualche secondo prima la stavano rudemente usando si trasformarono in dolci strumenti di tortura gentile, accarezzando le sue natiche arrossate con tocchi leggeri come piume, facendola rabbrividire quando sfioravano le zone più sensibili, tracciando percorsi ipnotici lungo la sua schiena che la facevano inarcare come una gatta in calore.