
Ora che poteva guardarlo, tutto assumeva una densità diversa. Non più solo voce nell’oscurità, ma corpo che si muoveva con la fluidità meditativa del Tai Chi. Dago non legava: danzava. Ogni gesto calibrato come un kata, ogni movimento delle mani una preghiera silenziosa al dio delle corde.
Giulia lo studiava mentre lui tesseva il double column tie attorno ai suoi polsi. C’era qualcosa di ipnotico nel modo in cui le sue dita guidavano la juta, come un maestro di qìgōng che muove l’energia invisibile. La concentrazione gli induriva la mascella, la lingua che sfiorava il labbro superiore quando un nodo richiedeva particolare precisione. Marco sbrigava il sesso come una pratica burocratica. Quest’uomo trasformava ogni gesto in rituale.
“Ti piace guardarmi?” La domanda arrivò senza che interrompesse la sua danza. “O preferivi quando ero solo una voce che ti comandava?”
Non rispose. Era troppo occupata a memorizzare come le sue dita ruotavano nell’aria prima di stringere un nodo, il modo in cui il suo corpo seguiva il movimento delle corde come acqua che trova la sua strada. Quando iniziò il futomomo sulla prima gamba, piegandola con la delicatezza di chi maneggia origami antichi, Giulia scoprì che essere vista mentre guardava creava una nuova forma di nudità.
I loro occhi si incrociarono. Quello sguardo che leggeva tutto: la paura, il desiderio, quella fame antica che nessun matrimonio aveva mai sfamato. Le dita di Dago continuavano la loro danza millenaria mentre la studiava, mappando reazioni che Marco non aveva mai cercato.
Quando passò all’altra gamba, i suoi movimenti presero il ritmo di una meditazione in movimento. Non c’era fretta nella sua danza, solo presenza totale. Giulia si avvertiva simultaneamente oggetto d’arte e artista, tela e pennello, mentre lui orchestrava la sua trasformazione con gesti che parlavano di tradizioni antiche tradotte in piacere moderno.
Il tocco delle sue mani per preparare la seconda gamba alla legatura la fecero sussultare, ma di piacere. Poi gli occhi di Dago tornarono a concentrarsi sulla legatura e lei poté concentrarsi sui suoi gesti. Riuscivano a combinare forza e agilità. Ma, soprattutto, quando toccavano la pelle era come se quel tocco andasse oltre il derma, in profondità. Si perse a immaginare come sarebbe stato farsi accarezzare tutta, senza uno scopo, un obiettivo.
Lo schiaffetto sulla figa, deciso ma non esageratamente forte, la riporto immediatamente sul pianeta terra. “Mi piacerebbe sapere a cosa stessi pensando ma, per oggi, la tua prima volta, sarò clemente”. Finito di legare anche la seconda gamba, aggancio una corda facendola passare sotto il tavolo per agganciare l’altra gamba, obbligandola a tenere le gambe spalancate.
Dago si allontanò di un paio di passi per ammirare il suo lavoro. Avrebbe voluto andare a prendere la reflex e fare una serie di scatti per quanto erano venute bene le legature e per quanto lei era bella, li, su quel tavolo, abbandonata e pronta a vivere tutto quello stava per accadere.
Giulia si vedeva un po’ come la rana che gli studenti americani devono vivisezionare nei film. Ora era sì oscenamente aperta, offerta. Se lui avesse deciso di salire sul tavolo e scoparla, niente l’avrebbe potuto fermare e, oramai, probabilmente nemmeno lei lo avrebbe voluto fermare. Anzi avrebbe voluto quasi chiederglielo ma lo vide allontanarsi per prendere qualcosa.
Cosa avrebbe pensato Marco vedendola così? Cosa avrebbe pensato Marco vedendola legata in quel modo a quel tavolo? Cosa avrebbe pensato Marco vedendola godere come e quanto aveva appena fatto? Lui, aveva mai avuto fantasie del genere?
Nel frattempo, Dago era tornato e aveva in mano un oggetto strano. La bacchetta di vetro si illuminò di viola mentre lo avvicinava alla sua pelle. Un crepitio nell’aria, come elettricità statica prima del temporale.
“Non aver paura,” mormorò, facendolo danzare sul suo ventre. “È solo un altro modo di svegliarti.”
Il formicolio era strano – non dolore ma presenza elettrica, come se la pelle imparasse un nuovo alfabeto. L’odore di ozono si mescolava al palo santo, sacro e profano che danzavano insieme.
Giulia scosse la testa. Era una sensazione strana. Non era dolore, non era piacere, non trovava nemmeno lei le parole per descriverlo, e mentre le cercava, lui iniziò ad usarlo su tutto il suo corpo. Dalla pancia risalì verso i seni, accarezzandoli, trattandoli con cura. Poi giù di nuovo, la pancia, l’inguine e per finire anche sulla figa. Nei punti delicati, nei punti più sensibili, l’effetto era maggiore, ma nulla di doloroso, quasi era più il ronzio che emetteva che dava particolari emozioni.
Nell’altra mano comparve la vera magic wand. Mentre Giulia cercava di capire cosa avesse in mente, Dago accese il massaggiatore alla prima velocità avvicinandolo al seno destro mentre con l’alta frequenza giocava nell’interno coscia, avvicinandosi all’inguine. Il massaggiatore passò sull’altro seno mentre l’altro andava sulla pancia. Continuo a giocare a casaccio per un po’ fino a quando, dopo avere aumentato di una tacca la vibrazione, la testa del vibratore finì esattamente sopra la clitoride. A quel punto il corpo di Giulia si inarcò, non potendo chiudere le gambe come l’istinto le imponeva. Un grugnito di piacere le graffiò la gola.
Lui le concesse qualche secondo prima di ricominciare la danza. Accarezzava e stuzzicava varie parti del corpo e poi improvvisamente arrivava con la magic wand contro il suo sesso dando una decisa accelerata al suo piacere, senza però averle dato il consenso a godere. Inoltre, iniziava a sentire anche il bisogno di urinare. Aveva paura di non riuscire a resistere e innondare il tavolo con il suo piscio, ma le continue stimolazioni di Dago non le davano il tempo e la possibilità di provare ad esprimersi. E ogni volta che la magic wand arrivava sul suo sesso, si fermava sempre più a lungo, massaggiando con cura la clitoride e tutta la zona circostante.
Quando oramai era al culmine, a quel punto dove era sicura che non sarebbe più riuscita a resistere, lui, percependolo, si fermò nuovamente. Giulia faticò a riaprire gli occhi dopo averli stretti così forte per resistere al desiderio di godere. Quando li aprì lo vide in piedi vicino al tavolo, con quel suo ghigno divertito e soddisfatto.
Si avvicinò un po’ di più al tavolo. “Sono un po’ di ore che sei mia … come stai?” Mentre le chiedeva le dita toccavano la legatura delle gambe e la sua pelle, valutando che non ci fossero problemi che avrebbero causato un’immediata e rapida liberazione a costo anche di tagliare la corda. “Ho solo … inizio ad avere bisogno di fare pipì … “
Il ghigno si trasformò in un sorriso. “Dovrai resistere ancora un po’, ma so che ce la farai … “
Quel ‘ma so che ce la farai’ valeva molto per lei. In quel momento si era sentita la bambina che aveva sempre desiderato di ricevere quei complimenti dai genitori, dalle maestre a scuola, da tutti. E nello stesso tempo si era percepita come la donna che era libera di darsi senza vergogna, pronta ad affrontare nuove sfide.
La mano di Dago ora la accarezzava, sfiorava delicatamente, il suo corpo, la sua pancia, salendo verso i seni. Era un tocco delicato e educato, ma era la sua, erano le sue dita ed erano calde, bollenti, sembrava attraversassero la pelle per andare a toccare direttamente i tendini e i muscoli, una sensazione che, sulla sua pelle; si accentuava di un milione di volte.
Dentro il corpo, la mente di Giulia si stavano rimescolando tante emozioni e tanti bisogni. Sentiva il bisogno di godere diventare sempre più impellente, erano una energia, un formicolio che viaggiava costantemente sottopelle, muovendosi ovunque, senza darle tregua. Questo combatteva con il bisogno di urinare che iniziava a diventare una costante sensazione di pressione nella vescica, come se stesse diventando un gavettone.
Mentre lui continuava ad accarezzarla lei cercò i suoi occhi, cercando di comunicare in quel modo, supplicandolo di farla godere, di farla pisciare, il tutto senza proferire un solo suono.
“Manca poco, coraggio un piccolo sforzo … “ Giulia non sapeva se prendere quelle parole come una rassicurazione o come una minaccia. Lo decise quando vide comparire il tentacolo. Il corpo si contrasse, bloccato dalle corde. Non le era possibile sottrarsi e una vocina le sussurrò che comunque non avrebbe potuto sottrarsi.
Il tentacolo colorato che lui aveva scelto sembrava vivo nella luce delle candele. Giulia riconobbe quella particolare perversione orientale, l’ossessione hentai che aveva scoperto nelle sue notti di esplorazione digitale.
La punta la trovò già aperta, fradicia. Quasi non fu necessario spingere; il suo corpo lo risucchiava dentro con fame propria. Le ventose creavano una frizione nuova, una texture che risvegliava sensazioni, svelava emozioni, prometteva piaceri. Entrava, per poi ritrarsi. Ogni volta in una direzione diversa. Ogni volta più a fondo. Ogni volta con cadenza più rapida, decisa, invadente.
Il corpo di Giulia si contraeva sempre di più. Si mordeva le labbra e gemeva. Si dibatteva cercando di sfuggire a quella tortura, anche se non vedeva l’ora che la facesse godere fino allo sfinimento.
Quando lui trovò il ritmo giusto, quello che la teneva costantemente sul bordo senza farla cadere, lei capì la crudeltà raffinata del controllo. Non era il tentacolo a scoparla. Era la sua mente, la sua attenzione ad ogni suo particolare che la stavano fottendo come nessuno prima.
“Ora, dammi tutto quello che hai… Dammi tutto quello che è MIO!”
Voleva piangere dalla gioia. Il rantolo, un gemito animale, iniziò a risalire dalla gola, crescendo provocato dal tentacolo che accelerava, affondava, la fotteva con tutta l’intensità che Dago riusciva a darle. Il primo orgasmo arrivò dopo poche spinte, accompagnato da un acuto urlo di liberazione. Ma la mano del suo carnefice non si fermava. Lo sguardo di Dago si alternava tra il suo viso e la sua fica.
Un secondo orgasmo arrivò violento, senza quasi darle tregua dal precedente. Ora il corpo era in preda a convulsioni, mentre Giulia supplicava “Fermati, ti prego, fermati… basta… io non riesco…” le parole le morirono in bocca, percependo da un punto profondo del suo addome, della sua vagina, formarsi qualcosa, come l’origine del mondo, come la creazione di un diamante. Incredula, avvertiva formarsi e crescere un altro orgasmo, un altro. Fece appena in tempo a pensare ai molti orgasmi di quel pomeriggio, forse più che in tutto il matrimonio. Poi l’orgasmo esplose, la travolse, scindendo il corpo dalla mente.
Il corpo era semi-immobilizzato sul tavolo, tremante, scosso da movimenti involontari, disteso in una chiazza di liquido generato dai suoi orgasmi. La mente invece vagava per mondi pieni di luci colorate, scoprendo livelli di piacere che non aveva mai nemmeno vagamente immaginato. Nemmeno le confessioni sfacciate di Anna l’avevano preparata a qualcosa del genere. Immaginò il loro prossimo caffè, lei che finalmente avrebbe avuto storie proprie da sussurrare. Ma quel pensiero svanì quando sentì nuovamente il contatto della sua mano, aperta, avvolgente. Anzi di due mani. Una accarezzava la pancia, l’altra le accarezzava il viso.
“Piccola, dove sei?” La voce era una dolce guida per farla tornare da mondi lontani al pianeta terra. Il suo tocco la ancorò al presente, aiutandola a riprendere possesso di un corpo che sembrava non appartenerle più. Quando riuscì ad aprire gli occhi, la prima cosa che vide fu il suo volto sorridente.
“Fatto un bel viaggio?” Lei annuì con un cenno, ancora in preda ad emozioni che faticava a decifrare. In quel momento avrebbe voluto solo abbandonarsi tra le sue braccia, raggomitolarsi, lasciarsi coccolare.
“Respira con calma e torna qui con me.” Dago si spostò per iniziare a liberarle le gambe. Prima la corda che le teneva aperte, poi quelle che le avevano trasformato in opere di shibari. Le sue dita esperte controllavano la circolazione, massaggiando dove le corde avevano lasciato la loro firma sulla pelle.
“Hai dei segni stupendi, peccato che svaniranno presto.”
Giulia aspettava che le sciogliesse anche i polsi, ma lui aveva altri piani. Le sue mani tornarono a esplorare: la pancia, la curva dei seni, mantenendo quello sguardo che la inchiodava più delle corde.
Era evidente che ci fosse in corso una battaglia interiore in lui. Leggendogli quel conflitto sul viso, si ritrovò a riflettere su come avrebbe reagito se lui avesse abbassato la zip e tirato fuori il cazzo. Sarebbe stato una violazione del loro contratto, della fiducia riposta. Ma nello stesso tempo lo desiderava, era curiosa di scoprire come sarebbe stato.
Invece la mano scivolò dove sempre scivolava, reclamando la sua fica. Gli occhi di Giulia si spalancarono mentre lui, con quel ghigno che ormai riconosceva, sussurrava: “Questo lo offre la casa!”
Il medio e l’anulare la invasero con precisione chirurgica, cercando quel punto che Marco non aveva mai trovato in vent’anni. Le dita si piegarono contro l’osso pubico, premendo dove il piacere diventava elettricità pura.
“Oh Cazzo…” Le parole le sfuggirono crude, sincere.
Mentre l’anulare e il medio cercavano la posizione perfetta, il pollice torturava la clitoride. Intanto la sinistra premeva il ventre con una sapienza riservata a pochi. Dago aveva imparato questa particolare tecnica a furia di sperimentare, complici alcune compagne di giochi che si erano offerte volentieri come cavie.
Poi iniziò quel movimento: sussultorio, rapido, implacabile come un macchinario. Ma non era meccanico. Era musica. Le dita curve premevano contro quella spugna di tessuto dietro l’osso pubico, quel punto che gli inglesi chiamano G-spot e i tantrici chiamano sacro. La pressione dall’esterno amplificava quella dall’interno, creando una morsa di piacere che Giulia non poteva sfuggire.
Il ritmo era ipnotico. Non era la frenesia goffa di chi cerca di imitare un video porno. Era precisione studiata, ogni movimento calibrato sulla risposta del suo corpo. Quando Giulia iniziò a contrarsi, quando i muscoli del ventre iniziarono quella danza involontaria, lui non accelerò. Mantenne quel ritmo implacabile che la costruiva dall’interno come pressione in una pentola.
Ci vollero secondi per provocare quello zampillo impossibile, quella fontana che la vergogna di Marco avrebbe definito disgustosa. Ma qui era arte. Dago la mungeva di piacere, estraendo un secondo getto, poi un terzo, come fosse acqua da una fonte sacra.
Giulia riconosceva quella sensazione ormai, ma questo era diverso. Non più l’incidente imbarazzante delle prime volte, né la sorpresa del corpo che si ribella. Questo era deliberato, orchestrato. Dago la suonava come Coltrane suonava il sax: note impossibili estratte con violenza amorevole.
La parte di lei educata da madre cattolica avrebbe voluto vergognarsi di questi flutti che la attraversavano. Ma c’era potere in questo abbandono liquido. Ogni getto era una piccola morte dell’immagine di moglie asciutta che aveva interpretato per vent’anni. Marco l’avrebbe trovato disgustoso. Dago invece la guardava come si guarda un miracolo che si ripete.
“Una’altro” mormorò lui, e non era un ordine ma una preghiera. “Fammi vedere fino a dove possiamo arrivare.”
La mano destra accelerò con quella fame predatoria che aveva smesso di nascondere, mentre l’altra premeva il ventre, creando una morsa di piacere impossibile da sfuggire. Giulia sentì il quarto orgasmo costruirsi dalle fondamenta, diverso dai precedenti, come un terremoto che, quando arriva, rade al suolo qualunque cosa.
Quando venne, fu apocalisse liquida. Il suo corpo si svuotò in un getto che sembrava non finire mai, mentre Dago la guardava con occhi di predatore che ha trovato la preda perfetta. Le sue dita non rallentavano, mungendo ogni ultima goccia di piacere dal suo corpo devastato.
Fu allora che lui si fermò di colpo, come folgorato. Si strappò via da lei con violenza, le mani che tremavano visibilmente. Due passi indietro, poi tre. Il respiro pesante di chi sta annegando nell’aria
Era evidente che una battaglia si combattesse dietro i suoi occhi. I suoi pugni si aprivano e chiudevano ritmicamente, come chi combatte contro una dipendenza. Giulia riconosceva quella fame particolare: l’aveva vista crescere ogni volta che la faceva squirtare, quell’ossessione di spingerla sempre più oltre.
“Potrei continuare per ore,” confessò lui, la voce ruvida di desiderio trattenuto. “Guardarti venire così è la mia ossessione. Ma ho già piegato abbastanza le nostre regole.”
Restarono così per un tempo impossibile da misurare. Lei, distesa sul tavolo tra i suoi fluidi, il corpo scosso da piccoli tremori come scosse di assestamento. Lui, a tre passi di distanza, che combatteva con il proprio respiro come chi è stato troppo a lungo sott’acqua senza aria.
Le sue mani si aprivano e chiudevano ritmicamente, tremando visibilmente. Il controllo gli costava uno sforzo fisico evidente: mascella serrata fino a far male, spalle tese come corde di violino, quella tensione di chi si nega il vizio preferito. Giulia lo osservava affascinata da quella battaglia. Era devastante vederlo combattere non contro il desiderio di prenderla, ma contro quello di continuare a darle quello che il suo corpo ancora chiedeva.
Ripreso il controllo quel tanto che bastava, Dago si era avvicinato di nuovo a lei, le aveva slegato i polsi, si era seduto sul bordo del tavolo, lasciando scorrere le dita tra i capelli capelli, sul viso. I suoi occhi la guardavano e le parlavano, raccontavano di gratitudine e di soddisfazione, Le si girò su un fianco, appoggiando il viso sulla sua coscia, abbandonandosi a quelle carezze e cercando di riprendere un minimo il controllo del proprio corpo. Per capire un po’ di più cosa fosse successo ci sarebbe stato il viaggio di ritorno in treno.
Restando in silenzio, mentre Giulia galleggiava in quello spazio liminale che solo certe pratiche sanno creare, dove il corpo diventa estraneo e familiare insieme, Dago la osservava con quella concentrazione che gli uomini riservano a qualcosa che hanno appena creato. Si mosse con calma, prendendo un asciugamano morbido che aveva preparato prima, come chi prevede tempeste.
Le sue mani, quelle stesse che l’avevano appena devastata di piacere, ora la ricomponevano. Asciugava il sudore dalla fronte, dal corpo, riscaldandola, con gesti che parlavano di attenzione, di cura. Non era imbarazzo per il disordine corporeo, ma celebrazione di quello che erano riusciti a creare insieme.
“Come stai?” Non era la domanda di chi cerca conferme, ma di chi è interessato veramente. “Dove sei, in questo momento?”
Giulia lo guardò, trovando parole che non sapeva di possedere: “Non lo so come sto e non so se mi interessa saperlo. Mi hai spezzata e ricomposta come il kintsugi giapponese, con l’oro nelle crepe.”
Lui sorrise, quel sorriso particolare che gli veniva quando la parte più dolce emergeva. Le accarezzò i capelli, districando con pazienza i nodi che la passione aveva creato. Era aftercare come forma d’arte: non solo recupero fisico, ma ricostruzione dell’io che si era dissolto nel piacere.
“C’è un’altra cosa,” disse dopo minuti o ore, il tempo aveva perso significato. “Un’ultima soglia da attraversare. Ma solo se te la senti.”
Il modo in cui lo disse, con quella miscela di sfida e cura che era la sua firma, fece contrarre il ventre di Giulia in anticipazione. Sapeva che qualunque cosa fosse, l’avrebbe portata ancora più in profondità in sé stessa.
Le parole galleggiavano nell’aria come una promessa oscura. Giulia, tuttora frastornata, capì che tutto quel pomeriggio era stato un attraversamento. Ogni orgasmo una porta aperta su stanze che non sapeva di possedere. Ma questa prova finale, lo intuiva, sarebbe stata diversa.
Le sorrideva, ma tra le cose che aveva imparato in quel pomeriggio era distinguere le varie gradazioni e significati dei suoi sorrisi, da quello dolce a quello sadico. Quello che era appena comparso sul suo viso era verso la gradazione sadica. L’aveva aiutata a mettersi seduta sul bordo del tavolo, si era assicurato che stesse bene e poi aveva detto: “Aspettami qui!”
Dago si alzò con quella grazia controllata che aveva mantenuto per ore, nonostante l’evidente sforzo fisico. Si allontanò nell’ombra della stanza. Giulia lo sentì armeggiare con qualcosa, il tintinnio del vetro che prometteva nuovi territori da esplorare.
Quando tornò, reggeva una ciotola di cristallo pesante, di quelle che sua nonna avrebbe usato per il centrotavola delle feste. La posò sul tappeto orientale con gesti misurati, trasformando un oggetto domestico in altare del desiderio. Poi andò a sedersi sul suo trono improvvisato, quella poltrona che era diventata il centro del suo potere.
“Vieni,” disse semplicemente. Ma in quella singola parola c’era tutto: la certezza che lei avrebbe obbedito, la curiosità per vedere se avrebbe superato quest’ultima prova, quella fame particolare di chi colleziona momenti di resa totale.
Giulia scivolò dal tavolo. Le gambe reggevano a malapena, ma c’era una dignità strana nel suo incedere. Come quelle donne che trovano potere nella propria vulnerabilità scelta, che trasformano ogni prova superata in una piccola vittoria personale.
Con un gesto della mano aveva indicato la ciotola mentre con quel sorriso appena accento diceva “Prego, ora puoi fare la pipì!” Era gentile, ma non era discutibile.
Assurdamente, dopo essere stata completamente a sua disposizione, essersi lasciata usare in ogni modo, l’idea di abbassarsi sulla ciotola e fare la pipì davanti a lui sembrava metterla più in imbarazzo che offrigli di nuovo il culo. “Giulia … – il tono era cambiato quanto bastava per rimetterla al suo posto – … non ti ho detto se vuoi puoi – si era sporto in avanti, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, le mani unite – Ho detto che devi pisciare, li, ora, davanti a me!”
Dago si sistemò sulla poltrona con la calma di chi ha tutto il tempo del mondo. Non c’era fretta, né impazienza nel modo in cui la studiava.
“Tutto questo controllo che ti porti dentro come un’armatura.” La voce bassa e sicura. “Quando sei qui con me puoi lasciarlo fuori dalla porta.”
Indicò la ciotola. Un gesto semplice che conteneva universi di significato.
“Ora. Piscia adesso. E guardami mentre lo fai.”
Non era crudeltà nella sua voce, ma qualcosa di più pericoloso: comprensione totale. Sapeva che questo, più di tutto il resto, era il vero abbandono. Non il sesso, non il dolore, ma questo bisogno primordiale reso spettacolo.
Giulia si mosse verso la ciotola come in trance. Ogni passo era una resa, ogni centimetro percorso un’ammissione. Non era più la contabile precisa, la moglie invisibile. Era carne che obbediva, volontà che si scioglieva.
Si accovacciò sopra la ciotola. Da qualche parte, sua madre si rivoltava in una tomba metaforica. Marco avrebbe distolto lo sguardo disgustato. Ma negli occhi di Dago trovò solo fame. Fame di vederla completamente nuda, oltre la carne.
Il primo getto fu liberazione e umiliazione in parti uguali. Teneva gli occhi nei suoi mentre il liquido caldo riempiva il vetro, mentre l’odore acre saliva tra loro come incenso profano. Non distolse mai lo sguardo, nemmeno quando le lacrime iniziarono a rigarle il viso. Non di dolore. Di sollievo. Di essere finalmente vista.
Era oltre l’umiliazione. Era comunione.
Istintivamente aveva cercato qualcosa con cui pulirsi ma un suo cenno le fece capire che non ce n’era bisogno. “Vieni qui, mia stupenda creatura.”
Giulia si inginocchiò e si avvicinò a lui a quattro zampe. Se avesse potuto avrebbe scodinzolato, fatto le fusa. Lui agganciò con un dito il collare e la guidò tra le sue gambe, facendole appoggiare la testa su una coscia, come le aveva fatto prima sul tavolo. Alzò un’altra volta lo sguardo cercando quello di lui. “Sei stata bravissima!”
Giulia si spinse ancora più contro di lui colma di una felicità che le faceva venire voglia di piangere dalla gioia.
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