DAGO HERON

Capitolo 8 – Il Sapore Acre del Ritorno

Giulia era abbandonata contro il suo petto, accovacciata come una gatta nella sua tana sicura, protetta dalle sue braccia che la cingeva, le sue mani che la accarezzavano. Era coccolata dalla sua voce, tranquilla e profonda, e dal suo profumo, che sapeva di legno, solido. Giulia ogni tanto si infilava con il viso nell’incavo del collo per annusarlo meglio.

Ogni centimetro del suo corpo conservava l’impronta delle sue mani, delle corde, degli strumenti che l’avevano plasmata. La pelle pulsava ancora di memoria: qui una carezza, là il morso dolce della juta, più in basso l’eco di piaceri che non sapeva di poter provare. Era stanchezza liquida, quella che le scorreva nelle vene, ma anche elettricità sottocutanea che le faceva tremare le dita quando le appoggiava sul suo petto.

Essere vista. Per la prima volta essere completamente vista. Non attraverso filtri di convenienza o aspettative, ma nella sua nudità più vera. Quella che andava oltre la pelle.

Erano rimasti a parlare per lungo tempo. Avevano chiacchierato delle sensazioni diverse date dai vari strumenti. Avevano conversato di sesso, di orgasmi. Avevano parlato di quello che avevano provato nei vari momenti. All’inizio aveva parlato di più lui. Poi aveva iniziato a raccontare Giulia e ci mancava poco che bisognasse usare la ball gag per azzittirla. Avevano anche riso, molto e di gusto.

Mentre le parole scivolavano tra loro come carezze sonore, la mente di Giulia riavvolgeva il nastro del pomeriggio. La prima sculacciata che l’aveva fatta sussultare più per la sorpresa che per il dolore. Il momento in cui aveva capito che il suo corpo poteva tradirla in modi meravigliosi. L’istante preciso in cui aveva smesso di essere la moglie di qualcuno per diventare semplicemente sé stessa.

“Sai,” disse Dago, la voce che si ammorbidiva in una confessione, “ogni volta è un viaggio anche per me. Non è mai solo tecnica o esperienza. È sempre una scoperta di chi ho davanti.” Le sue dita continuavano a disegnare geografie invisibili sui suoi capelli. “Ma anche attraverso l’altro una scoperta di me stesso. Tu oggi mi hai stupito. La tua capacità di lasciarti andare, di fidarti… mi ha fatto riscoprire nuove sfumature del mio modo di dominare, stimolato nuove curiosità.”

Mentre lo ascoltava parlare, Giulia sentì qualcosa espandersi nel petto. Era gratitudine, ma non quella tiepida e educata che si deve a chi ci ha fatto un favore. Era qualcosa di più viscerale, più urgente. Una riconoscenza che le bruciava nelle vene come alcol forte.

Osservava il modo in cui le sue labbra si muovevano quando parlava, come le mani gesticolavano con quella sicurezza naturale che l’aveva guidata attraverso territori sconosciuti di sé stessa. Quest’uomo le aveva regalato molto più di piacere fisico: le aveva mostrato che esisteva un’alternativa alla vita noiosa e monotona che aveva accettato come
destino.

La gratitudine le cresceva dentro come una marea. Era riconoscenza primitiva per chi ti apre una porta che credevi murata per sempre. Lui l’aveva strappata dall’indifferenza quotidiana, dalle cene silenziose, dai weekend riempiti di faccende per non pensare. Le aveva dimostrato
che poteva ancora vibrare, sentire, essere viva in modi che aveva dimenticato.

L’allarme che Dago aveva impostato quando lei era arrivata li riportò, controvoglia, alla realtà. Lui le sollevò il mento: “Devi prepararti per tornare a casa, non voglio che tu faccia tardi!” Lei si era rifugiata di nuovo nel suo collo, quasi fosse un posto dove nessuno poteva trovarla.
Lo bacio, dolcemente, umidamente, vicino alla base dell’orecchio. Lui le sollevò di nuovo il mento e la baciò sulle labbra. Si guardarono per qualche secondo, entrambi consapevoli che, se si fossero baciati un’altra volta, il prossimo bacio non sarebbe stato casto e non si poteva sapere dove li avrebbe portati.

“Giulia, vai a farti la doccia.” Mentre lui cercava di resistere a mille desideri e tentazioni, Giulia si giocò l’ultima carta, facendogli gli ‘occhioni’ come il gatto degli stivali. “Devo proprio?” gli chiese.
“Devi, non voglio che a casa si insospettisca ma, lascia la porta aperta, voglio poter essere libero di venirti a vedere!” Giulia provò ancora una volta a fare resistenza ma Dago la fece scivolare a terra e con una pacca sul sedere la mandò in direzione del bagno.

Mentre Giulia si dirigeva in bagno, dove trovò un kit di prodotti e oggetti dedicati a lei, Dago si diresse in cucina. Con molta calma, dando il tempo a Giulia di entrare in doccia, prese due flûte, li riempì di prosecco. Li osservò per qualche secondo, poi ne svuotò uno senza fretta e lo riempì nuovamente. Prese i bicchieri e si diresse verso il bagno.

Giulia era sotto il getto della doccia rivolta verso il muro. Lui si appoggiò allo stipite della porta, con i bicchieri in mano, e restò a guardarla, ad osservare il suo corpo.

L’acqua scivolava lungo le sue curve, lavando via i residui del pomeriggio ma non la memoria impressa nella carne. Ogni goccia che le percorreva la schiena sembrava risvegliare echi di carezze, di possessi, di scoperte. La pelle brillava sotto il getto, diversa da come l’aveva vista entrare ore prima. Più morbida, più viva, come se l’aver ceduto il controllo l’avesse paradossalmente riportata in possesso di sé stessa.

Giulia si muoveva con una grazia nuova, inconsapevole della propria sensualità ma non più imbarazzata da essa. Le spalle non si curvavano più per nascondere il seno, i fianchi non cercavano più di sparire sotto gesti timidi. Era semplicemente sé stessa, nuda senza più vergogna.

Quello che vedeva gli piaceva. Aveva quelle imperfezioni che la rendevano perfetta, vera. E ora poi aveva una postura completamente diversa, quasi regale, che dava alle sue curve e forme un nuovo splendore.

Era talmente assorto a guardale il sedere che non si accorse che Giulia aveva girato la testa e lo stava osservando. I loro occhi si incontrarono attraverso il vapore come due predatori che si riconoscono. Nel suo sguardo Dago lesse una sfida silenziosa, la stessa determinazione che l’aveva spinta a bussare a quella porta. Negli occhi di lui, Giulia vide fame trattenuta, desiderio che lottava contro la promessa data.

Con le mani insaponate iniziò a massaggiarsi i glutei, mentre lentamente si piegava in avanti. E mentre si piegava in avanti fece in modo di allargarli, offrendogli la visuale dei suoi buchi. Solo allora lui realizzò che lei lo aveva visto e lo stava stuzzicando. Dago le sorrise, sollevò uno dei due flûte e lo vuotò, mentre Giulia si girava, continuando a giocare con il sapone, insaponandosi vigorosamente i seni, scendendo lungo la pancia, tra le sue cosce. Faceva tutto questo mentre i suoi occhi erano incollati al suo viso, godendo delle emozioni che riusciva a provocargli.

Era la prima volta che si trovava a fare uno spettacolo del genere. Cercò di fare appello a video che aveva visto. Affondò due dita nella sua fessura e il piacere fisico si combinò con quello mentale, scatenando una reazione chimica altamente esplosiva. Si girò un’altra volta, offrendo la vista dei suoi fianchi generosi, si piegò in avanti allargando le gambe, certa che in quel modo lui avrebbe avuto una perfetta vista su quanto gli stava offrendo: tutta sé stessa.

La mano destra scivolò di nuovo tra le cosce, andando a giocare nuovamente con la sua figa, mentre la sinistra prendeva un’altra strada per arrivare al suo ano. Le dita la invadevano con un ritmo alternato. Due nel canale principale, due nel canale secondario.

Per un rapido istante senti ancora la voce di sua madre tentare di urlarle di vergognarsi, mentre si domandava se Anna avesse mai fatto uno spettacolo del genere a qualche suo ometto.

A causa di quell’eccitante e inaspettato spettacolo, nel sangue di Dago la densità di testosterone era più che triplicata. Trangugiò l’ultimo bicchiere di prosecco, appoggiò i bicchieri sul piano del lavabo, fatto scomparire i pantaloni e si era infilato in doccia con una minacciosa erezione.

Giulia si era sollevata, in parte sorpresa, in parte desiderosa di qualcosa di più. Lui la spinse contro la parete, i corpi premuti uno contro l’altro. La baciò con tutto il desiderio che lei aveva scatenato in lui non solo con quello spettacolo, ma in tutto il pomeriggio. Quando dopo molto si staccò dalla sua bocca la guardò dritto negli occhi: “Tu hai intenzione di farmi rompere il nostro accordo, ci stai provando in ogni modo…” La voce era allegra, scherzosa, confermata dal malizioso sorriso dipinto sulle sue labbra.

“Io? Moi?…” replicò Giulia con lo stesso tono.

“Sì, tu…” la baciò di nuovo, ma questa volta il sorriso scivolò via dalle labbra mentre qualcosa di più primitivo prendeva il sopravvento, “ma io sono un uomo di parola…”

Le piastrelle fredde contro la schiena e i glutei furono uno shock che la fece sussultare. Il contrasto tra il gelo della ceramica e il calore del corpo di lui che la premeva contro il muro le mandò scariche lungo la spina dorsale. I loro corpi si incastravano perfettamente, pelle contro pelle, mentre l’acqua continuava a scrosciare intorno a loro.

Si guardavano negli occhi da distanza ravvicinata, respiri che si mescolavano al vapore. In quello sguardo reciproco c’era tutto: la fame repressa di lui, la gratitudine ardente di lei, il riconoscimento di qualcosa che andava oltre i ruoli del pomeriggio. Quando le labbra si unirono, fu collisione pura. Bacio disperato, quasi violento, di chi sa che il tempo sta per finire.

Il suo peso che la schiacciava contro le piastrelle era ancora dominazione, ma diversa. Più carnale, meno cerebrale. Lei rispose con la stessa urgenza, le unghie che si conficcavano nelle sue spalle, la bocca che ricambiava morso per morso.

Mentre Giulia si aspettava che aggiungesse altro, lui dirottò la propria erezione tra le sue cosce, facendole poi chiudere le gambe. Lei rimase sorpresa, cercando di capire cosa avesse in mente. Solo quando iniziò a muoversi iniziò a capire. “…sono certo di riuscire a rispettare il nostro accordo e darti un ultimo piacere.”

L’asta dura di Dago riusciva a strofinare contro la sua clitoride. Nello stesso tempo sentiva il suo corpo, contro il proprio, in un movimento come quello che sarebbe stato se la stava scopando. Giulia strinse di più le cosce e si avvinghiò a lui, la bocca vicino al suo orecchio: “Se tu avessi voluto io … ” Dago le appoggiò un dito sulle labbra: “Non dire nulla, non aggiungere nulla …”

Si baciarono di nuovo e quando le labbra si scontrarono, fu come se tutto il desiderio represso del pomeriggio esplodesse in un punto solo. Non era più un bacio ma una guerra, bocche che si divoravano con una fame che rasentava la violenza. Le lingue si battevano senza tregua, denti che mordevano labbra fino al limite del dolore, saliva che si mescolava all’acqua della doccia, mentre i corpi strofinavano uno contro l’altro.

Lui la baciava come se volesse bere la sua anima attraverso la bocca, lei rispondeva con la stessa ferocia, le unghie che si affondavano nelle sue spalle lasciando mezzelune rosse sulla pelle bagnata. Era il bacio di chi sa che ha poco tempo, di chi deve dire tutto in un solo gesto.
Carnale, disperato, quasi selvaggio.

Quando finalmente si staccarono, entrambi avevano le labbra gonfie e dolenti. Il respiro di lei era un rantolo contro la sua bocca, quello di lui un ringhio sordo che vibrava nel petto. Si guardarono per un istante, riconoscendosi come animali della stessa specie.

Prima che il desiderio di tornare ad assalire la sua bocca prendesse il sopravvento, le sue forti mani la girarono verso la parete di vetro. Si poteva vedere riflessa nello specchio, i seni premuti contro il vetro, le mani appoggiate. Leggermente piegata in avanti, fremeva in attesa di cosa sarebbe successo.

Per prima cosa sentì la sua carne dura strofinarsi nel solco dei glutei. Più di una volta, per caso o di proposito, la cappella era inciampata nel suo ano, andando oltre. Poi, di nuovo, aveva fatto scivolare il cazzo tra le sue cosce. Giulia le chiuse istintivamente, un modo per
accoglierlo in lei. Lo senti iniziare a spingere dietro di lei con la stessa foga, con la stessa intensità, con lo stesso desiderio che avessero un rapporto tradizionale.

Più spingeva, più lei si appiattiva verso il vetro, sentendo una nuova forma di piacere crescere nella sua testa e nel suo ventre. Una parte era data dallo strofinamento contro la sua figa, contro la sua clitoride, ma un’altra parte arrivava solo dalla situazione, dal sentire, attraverso quelle spinte, quanto lui la desiderasse.

Giulia raggiunse l’orgasmo gemendo pochi istanti prima che anche lui la raggiungesse schizzando buona parte del suo orgasmo sul vetro. Rimasero così, Giulia premuta contro il vetro, lui premuto contro lei. Il cazzo ancora pulsante intrappolato tra le sue cosce che sembravano non volerlo liberare. Le spostò i capelli, le morse il collo. Un primitivo gesto di
possesso.

“Non ci resta molto tempo per noi, ma … “. Una mano le afferrò i capelli, forzandola dolcemente a inginocchiarsi “Questo è tuo … “. Le disse avvicinandole il viso al vetro dove lui aveva appena sborrato. Giulia non se lo fece ripetere, iniziando a leccarlo. Una volta ripulito
il vetro, le fece anche ripulire il proprio uccello, poi con uno sforzo di volontà si staccò da lei.\
“Fatti la doccia, ti aspetto di là. — la guardò con un velo di rassegnazione – Non voglio che tu perda il treno.” Disse prima di voltarsi, raccogliere i jeans e andare nell’altra stanza.

Giulia resta sotto il getto dell’acqua, sorride, ripensando a quello che è appena successo, a come lui sia riuscito a inventarsi un modo di avere un rapporto con lei senza infrangere le regole del loro accordo.

Quando Giulia, 10 minuti dopo, ritornò nel salone, Dago la attendeva seduto sulla sua poltrona, sul suo trono, con i due calici di spumante vicino a lui. Sul tavolo, ripulito, c’erano in ordine i suoi indumenti. I vestiti che lui aveva scelto per lei giacevano composti come una
seconda pelle che aspettava di essere indossata nuovamente. Ogni capo parlava del suo gusto, della sua visione di lei. La lingerie raffinata, il vestito che esaltava le sue curve senza volgarità, persino le scarpe che l’avevano fatta sentire più alta, più sicura. Era stato lui a
vestirla prima ancora di spogliarla.

“Vestiti, per piacere!”

Con la lentezza di chi vuole protrarre il più a lungo possibile quel momento, ritardare fino all’ultimo momento una separazione, indossò uno dopo l’altro gli indumenti, tornando ad apparire, senza esserlo, la donna che aveva bussato a quella porta. Ogni capo che indossava nuovamente portava la sua firma. Il reggiseno che lui aveva immaginato sui suoi seni, la guepière scelta per esaltare la sua vita. Il vestito rosa che aveva visto con i suoi occhi prima ancora che lei lo toccasse. Mentre si rivestiva, sentiva ancora il peso del suo sguardo, il piacere che aveva provato nel vederla indossare quello che aveva scelto per lei. Era stata la sua bambola vivente, vestita secondo i suoi desideri.

“Vieni qui!” Le indicò un ponto tra le sue gambe che oramai sentiva come il suo posto. Una volta che si fu inginocchiata lui le slacciò il collare. Giulia mosse istintivamente la mano al collo, sentendo un vuoto, sentendosi nuda. “Sarei andata a casa indossandolo.” Il collare
era l’unico elemento che lei aveva chiesto, l’unica scelta che aveva fatto. Tutto il resto – dalla lingerie alle scarpe – era stato lui a deciderlo, a immaginarlo su di lei. Ma quel cerchio di metallo era diventato suo più di qualsiasi vestito. Senza, si sentiva spoglia in un modo che andava oltre la nudità.

Dago si alzò, le pese la mano e la aiutò ad alzarsi e poi le offrì il bicchiere. Brindarono a quell’incontro e bevvero restando in silenzio, cercandosi ogni tanto con gli occhi.

Alla fine, si trascinarono verso la porta. Si guardarono ancora, consapevoli che entrambi avrebbero voluto dire un sacco di cose ma non ne avevano le forze, non trovavano il coraggio di rompere quell’incantesimo.

“Vuoi che ti accompagno?” lui le chiese.

“Grazie, ma ho bisogno di camminare, ho bisogno di avere un po’ di tempo per me.”

Giulia gli appoggiò la mano sul petto, poi si avvicinò appoggiandoci il viso, annusando il suo profumo ancora una volta. Lui la abbracciò. “È stato molto bello, grazie:” Lei sollevò il viso, cercò le sue labbra per un ultimo delicato bacio “È stato molto più di quello che avrei potuto desiderare. Grazie!” Un ultimo bacio, poi si separarono nello stesso modo in cui si stacca un cerotto, con uno strappo secco.

La porta si aprì, Giulia usci, prese le scale, lui uscì e la guardò scendere. “Mandami un messaggio quando sei sul treno” le disse mentre scendeva “E un altro quando sei arrivata a casa!” Giulia annuì. Lui aspettò qualche minuto prima di rientrare, chiudere la porta e andare
alla finestra da cui poteva vedere la strada. Il vestito rosa la rendeva facilmente identificabile in mezzo a tutta l’altra gente.

Uscita dal portone l’aria fresca della sera le accarezzò il viso. Aveva l’impressione di camminare in modo diverso, più lento, morbido, decisamente meno rigido. E questo nuovo modo di mettere un piede davanti all’altro provocava un morbido ondeggiamento dei fianchi. Forse per quel modo di camminare, o per l’espressione che aveva l’impressione di avere, la gente che incrociava, in particolare gli uomini, la guardavano in modo diverso, affascinati, alcuni le sorridevano.

Lei li vedeva, come spettri. La sua mente era concentrata solo su una cosa, sul rivivere e memorizzare in modo indelebile ogni fotogramma, ogni emozione, ogni sensazione di quel pomeriggio.

Gli uomini la guardavano, e per la prima volta lei non abbassava gli occhi. Li ricambiava, consapevole del proprio potere. Sapeva cosa si nascondeva sotto il vestito rosa: una donna che aveva urlato legata a un tavolo, che aveva supplicato di godere, che aveva scoperto orgasmi che non immaginava. Quel segreto la rendeva magnetica.

Anna. Doveva chiamare Anna. Finalmente avrebbe avuto storie proprie da sussurrare al caffè, non solo orecchie che ascoltavano. “Hai presente quando dici che ti hanno scopata bene?” le avrebbe chiesto. “Ecco, ora so cosa significa.” Il pensiero la fece sorridere, un sorriso nuovo che non riconosceva.

Il mentore. Gli doveva gratitudine per averla guidata fin qui, per aver creduto che fosse pronta quando lei stessa dubitava. “Aveva ragione,” gli avrebbe scritto quella notte. “Ero pronta. Più di quanto credessi.”

Ma soprattutto Marco. Marco che l’aspettava a casa, ignaro che la moglie che sarebbe rientrata portava sotto la pelle impronte di mani che non erano le sue. Come fingere normalità quando ogni cellula del suo corpo vibrava ancora di scoperte che il matrimonio non contemplava?

Il treno per casa l’aspettava, pronto a riportarla nell’altra vita. Ma lei sapeva che quell’altra vita non l’avrebbe più contenuta allo stesso modo. Fece il biglietto e una volta salita sulla carrozza e seduta al suo posto prese il telefono. “Sono seduta sul treno, grazie per esserti preso cura anche di questo aspetto, di farmi arrivare a casa in orario.”

Quando il telefono di Dago vibrò la seconda volta, lui rimase immobile alla finestra. Non rispose subito. Sapeva che l’attesa era già parte del gioco successivo. E sapeva anche che lei, seduta su quel treno, stava aspettando la sua risposta. I tempi con cui aveva mandato il
messaggio gli comunicavano che non era solo la richiesta di una donna soddisfatta che voleva ripetere l’esperienza. Era fame nuda, bisogno che chiamava bisogno con voce disperata.

“Quando possiamo vederci di nuovo?”

Lui stesso si sentiva diverso. Quella donna aveva risvegliato qualcosa dentro di lui che credeva sepolto da anni. La sua resa così totale aveva risvegliato appetiti che pensava di aver domato. Ora li sentiva fremere sotto la pelle come belve in gabbia.

Le dita si mossero sulla tastiera: “Solo dopo che avremo ridiscusso i termini del nostro accordo. Credo che entrambi abbiamo scoperto di volere qualcosa di più… completo.”

Sul treno, Giulia sentì il telefono vibrare e il cuore le esplose nel petto. Lesse il messaggio una volta, poi di nuovo, poi ancora. La parola “completo” le accese la mente come una miccia. Sapeva esattamente cosa significasse. Non più limiti, non più barriere. Non più quella danza gentile attorno ai confini che avevano rispettato quel pomeriggio.

Il pensiero si insinuò nelle sue vene come veleno dolce, liberando immagini che fino a quel momento aveva osato solo sfiorare. Le fantasie esplosero nella sua mente senza controllo: corde che la immobilizzavano mentre lui la possedeva completamente, il suo corpo che si arrendeva in modi che con Marco non aveva mai osato nemmeno immaginare. Non più la
sottomissione negoziata di quelle ore, ma capitolazione totale, carne che si offriva senza riserve.”

Le cosce si strinsero involontariamente. Tra poche ore sarebbe stata a casa con Marco, a fingere di essere la stessa moglie di sempre. Ma nel ventre le pulsava già la conta dei giorni che la separavano dal momento in cui sarebbe tornata da lui. Completa.

Scrisse una sola parola in risposta: “Quando possiamo ridiscuterlo? Sono pronta, quando vuoi.”

E premette invio prima che il coraggio la abbandonasse.

Dago era ancora davanti a quella dannata finestra. Immaginava il treno che usciva dalla stazione, lei seduta vicino ad uno dei finestrini. Cosa stavano per iniziare? Quello successo oggi probabilmente era solo il primo passo di qualcos’altro.

Con il cellulare in mano, attraversò la sala ancora piena dei segni del suo passaggio, tornò in cucina, versò ancora un po’ di prosecco mentre rileggeva gli ultimi messaggi.

“Giulia, voglio che tu ti goda questo viaggio, che ripensi e rifletti su quanto è successo in queste settimane e quanto è successo oggi. Voglio che ci dorma su. Se domani mattina sei ancora dell’idea di volere di più e di ridiscutere il nostro accordo, allora prendi la cavigliera che ti ho messo nella tasca della tua borsa, indossala e mandami una foto. Come avrai capito non sono un uomo che si accontenta. Quel gesto significa che sarai mia, la mia sottomessa e dovremo solo discutere le condizioni.”

Se prima il cuore le era esploso nel petto ora si era fermato. La prima volta divorò il messaggio. La seconda volta lo lesse con maggiore attenzione. Prima della terza volta frugò nella borsa trovando una semplice cavigliera in argento con delle pietruzze colorate. Non era
importante l’oggetto. Quello che era importante era il significato che aveva quell’oggetto e chi glielo aveva data.

L’ultima volta lo lesse accarezzando con la punta delle dita le parole come se fossero le sue labbra. Poi digitò quattro parole: “Come lei desidera Signore!”

Il viaggio fu lungo, silenzioso, pieno di pensieri e di ricordi. Si appoggio nell’angolo abbracciandosi, immaginando di essere seduta sulle sue gambe contro il suo petto. Poteva ancora sentire il suo profumo, le sue mani, la sua voce. Sfinita si appisolò risvegliandosi fortunatamente poco prima della sua stazione. Camminando verso casa ebbe la stessa
sensazione di quando stava andando verso la stazione.

Arrivò a casa per prima, come pianificato, si cambiò indossando la sua uniforme anonima e incolore e preparò una semplice cena. Ogni gesto familiare era diventato teatro. Mentre tagliava le verdure, le dita ricordavano altro, la ruvidezza delle corde, la levigatezza del suo
petto. Il rumore del coltello sul tagliere scandiva un ritmo diverso da quello che il suo corpo aveva imparato poche ore prima. Era come indossare un costume troppo stretto dopo aver scoperto di saper volare.

Cenarono scambiandosi poche parole sulla noiosa e lunga giornata avuta. Marco masticava parlando di pratiche burocratiche, di colleghi noiosi, del traffico. La sua voce arrivava ovattata, filtrata attraverso la memoria della voce di Dago che le aveva ordinato di godere. Giulia annuiva nei punti giusti, sorrideva quando richiesto, ma era spettatrice di sé stessa. Come se la vera lei fosse rimasta in quell’appartamento, e questa versione domestica fosse solo un ologramma ben programmato.

Giulia tagliava la carne e ogni movimento del polso le ricordava come Dago le avesse afferrato i capelli. Marco parlava di un nuovo software contabile, ma lei sentiva ancora l’eco della sua voce che le sussurrava “brava” contro l’orecchio. Il sapore del vino le riportava quello del prosecco bevuto tra le sue braccia, quando il mondo si era ridotto a quel salotto pieno di candele.

Le bastava chiudere gli occhi per un secondo e poteva ancora sentire le sue mani che le accarezzavano la schiena dopo. Come si chiamava quella sensazione? Aftercare. Una parola che Marco non conosceva, un concetto che non aveva mai sfiorato. Non per cattiveria, semplicemente perché vivevano in universi paralleli.

“Domani devo finire il bilancio di marzo,” disse Marco, e lei annuì guardando le sue mani che gestivano la forchetta. Mani gentili, familiari. Ma la sua pelle conservava l’impronta di dita che sapevano dove premere per farla tremare, che avevano disegnato mappe di piacere su territori che nemmeno lei conosceva.

Per un momento si chiese cosa sarebbe successo se avesse posato la mano su quella di Marco e gli avesse raccontato tutto. Ma era come immaginare di spiegare il colore rosso a chi è nato cieco. Alcuni linguaggi non si possono tradurre.

Le bastò uno sguardo alle mani di Marco, quelle mani che conosceva da vent’anni, morbide, impacciate, per sentire il contrasto bruciare nelle vene. Quelle dita non avevano mai saputo dove toccarla per farla tremare. Non avevano mai letto la sua pelle come un libro da decifrare.

Poi un po’ della solita televisione prima che Marco decidesse di andare a letto. Con una delle solite scuse lei rimase sul divano.

Giulia prese il telefono e scrisse prima di tutto al Mentore, ringraziandolo per averla aiutata a fare la scelta giusta. Poi scrisse ad Anna: “Quando ci vediamo per un pranzo tra amiche? Ho un po’ di cose da raccontarti!” La risposta non si fece aspettare molto: “Anche domani, mi devi raccontare tutto!” Dopo avere concordato ora e luogo Giulia andò in bagno a prepararsi per la notte. Si spogliò e si guardò allo specchio del bagno cercando segni visibili del pomeriggio. La pelle sembrava la stessa, ma lei sapeva che sotto scorreva sangue diverso. Si chiese se
Marco avesse mai notato quando lei cambiava. Un taglio di capelli, un nuovo rossetto, un sorriso diverso. Probabilmente no. Probabilmente poteva tornare a casa completamente trasformata e lui le avrebbe chiesto solo se avesse ricordato di comprare il latte.

La mattina successiva inventò una scusa per non andare a lavorare, una scusa valida per l’ufficio e per Marco e rimase a letto fino a quando lui non uscì.

Rimasta sola, per prima cosa si sfilò la camicia da notte. Il contatto delle lenzuola sulla pelle le ricordava le sue carezze. Le dita scivolarono tra le cosce come lui le aveva insegnato settimane prima piano, senza fretta. Ora ripeteva quei gesti come litania appresa. Indice e medio sfioravano la clitoride variando la pressione esplorando il proprio piacere come lui aveva fatto il giorno prima.

Il piacere saliva come allora, come tutte le volte che la sua voce l’aveva guidata attraverso il telefono mentre si masturbava nell’intimità rubata del bagno o della cucina. Lei aveva imparato a riconoscere i segnali, a fermarsi un attimo prima del precipizio. Era disciplina erotica, controllo che paradossalmente la liberava.

Le dita rallentarono, si ritrassero. L’onda del piacere si spense lasciando la pelle elettrificata e affamata. Esattamente come lui le aveva insegnato. Era ancora la sua allieva, anche a chilometri di distanza, anche senza la sua voce nell’orecchio. Il corpo aveva memorizzato ogni istruzione, ogni sfumatura del suo controllo.

Ricominciò, seguendo il ritmo che lui aveva orchestrato per settimane. Non era masturbazione: era pratica devozionale, preparazione per quello che sarebbe venuto.

Poi si era alzata e aveva preso il telefono, Nessun messaggio da Dago, come si aspettava. Era lei a dover chinare il capo e offrirgli la sua sottomissione. Prese la cavigliera, la indossò e la rimirò più volte. Poi si inventò un modo per posizionare il telefono in modo che, impostando il timer per l’autoscatto, nella fotografia comparisse in primo piano la cavigliera indossata, e sullo sfondo il resto del suo corpo, nudo.

La foto non aveva bisogno di sottotesto.

Attese i canonici cinque minuti prima che il telefono iniziò a squillare. Era Dago, il suo Padrone, ovviamente.